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Una direzione certamente positiva, ma che non tutti hanno compreso sino in fondo. Un cammino incominciato, ma interrotto un po’ a metà e che, proprio per questo, rischia di lasciare una percezione più negativa che positiva. Ecco il giudizio che emerge – a un anno dall’entrata in vigore della Riforma Fornero – esaminando i principali dati che provengono dalla voce delle aziende. E dall’indagine effettuata dall’Osservatorio Permanente di Gi Group Academy sulla Legge 92/2012 appare anche con chiarezza che, proprio in virtù di questa percezione negativa, le imprese hanno cercato scorciatoie, ritornando ai comportamenti precedenti la nuova Legge.
Da questa analisi vogliamo procedere per riprecisare il nostro pensiero circa i principali punti toccati dalla Riforma. Riconoscendo, innanzitutto, che con la legge Fornero ci siamo finalmente trovati al cospetto di un pensiero strategico, capace di organicità e, dunque, di ricondurre a unità – in modo peraltro condivisibile – le principali decisioni su temi apicali del mercato del lavoro, quali la flessibilità in entrata e in uscita, le politiche attive e l’inserimento dei giovani; e, questo, nonostante ci si trovasse a legiferare in condizioni di emergenza e in tempi ristretti. Proprio per tali ragioni, probabilmente, il disegno non è risultato integralmente compiuto, come avrebbe invece potuto essere; e proprio per questo, ancor di più, occorre ora essere molto fermi e determinati nel condurre a termine il percorso intrapreso, senza cedere alla tentazione offerta da provvedimenti reattivi e di breve respiro, che ci farebbero tornare pericolosamente indietro. Quali, dunque, in estrema sintesi, i capisaldi da tenere in chiara evidenza e su cui a nostro avviso procedere in un cammino di ulteriore sviluppo?
Il primo: la flessibilità in entrata e in uscita. Per riportare al centro il contratto a tempo indeterminato si è giustamente intervenuti puntando ad aumentare la flessibilità in uscita e limitando, d’altra parte, le forme di cattiva flessibilità. Non si è però, purtroppo, giunti sino a incentivare con decisione le forme di flessibilità buona, maggiormente in grado di garantire la necessaria sicurezza ai lavoratori (in termini, ad esempio, di supporto alla formazione e alla continuità professionale), consentendo nel contempo alle aziende di fruire della davvero irrinunciabile flessibilità in un contesto sempre più competitivo. Non possiamo certamente considerare salvifico, a questo proposito, l’intervento dell’attuale governo che, correggendo la correzione della Riforma Fornero sullo stop & go, ha nuovamente e impropriamente indicato nell’uso dei contratti a tempo determinato la via privilegiata alla flessibilità, anche quando questi vengano inopportunamente utilizzati per gestire le numerose reiterazioni dello stesso incarico. Resta inoltre da condurre a termine la costruzione della strada migliore per la flessibilità in uscita, oggi considerata dalle imprese ugualmente faticosa e più costosa che in passato.
Il secondo, fortemente correlato al primo: le politiche attive. La Riforma ha infatti menzionato esplicitamente la possibilità da parte delle aziende di ricorrere all’outplacement e ha indicato la necessità di un tavolo sulle politiche attive per il lavoro. Non basta però di certo una semplice raccomandazione per cambiare la cultura di un Paese. Non è in effetti un caso se la percentuale di aziende che ha fatto ricorso all’outplacement è rimasta stabile al 2%, prima e dopo la Riforma. La sfida, non ancora colta, è quella di proporre un patto alle imprese: in cambio di una flessibilità in uscita più trasparente, certa e meno costosa, chiedere loro di farsi carico della ricollocazione delle persone attraverso l’utilizzo di società di outplacement, con beneficio per tutti gli attori in gioco e con evidente risparmio per il Sistema Paese. Così come spiace notare che non si sia dato seguito all’indicazione di mettere mano a un efficace sistema di politiche attive nazionali: occorre infatti assumere con urgenza decisioni in merito a questioni fondamentali, come quella del rapporto tra politiche attive e politiche passive. Se sia ,ad esempio, più opportuno – e in che misura – garantire sussidi o puntare sulla “riattivazione” della persona; come configurare adeguati servizi per il lavoro, così da aumentare “occupabilità” e capacità di generare valore per le imprese; quale rapporto tra pubblico e privato, tra Stato e Regioni, tra governance e accreditamento, tra competenze e risultati. Temi, questi, davvero improcrastinabili.
Il terzo: l’apprendistato per i giovani. Circa questo fondamentale strumento di introduzione al lavoro basti dire che a un anno dalla Riforma il numero degli inserimenti risulta invariato: fermo al 6,4%. Sull’apprendistato – come già sottolineato in passato – occorre fare chiarezza una volta per tutte: si tratta di uno strumento che nasce per orientare l’imprenditore a investire sulla formazione delle persone, in modo da indurre a un forte impegno entrambe le parti. Bisogna dunque sanare l’equivoco secondo cui questo contratto dovrebbe essere in primis flessibile ed economico, indipendentemente dall’impegno formativo, come se si trattasse di uno strumento di puro avviamento lavorativo. Se, come è essenziale fare, si vogliono aiutare le aziende a puntare sulla formazione delle persone, allora occorre incentivare fino in fondo lo scopo formativo dell’apprendistato, per esempio eliminando le procedure inutili, azzerando i costi contributivi e riducendo significativamente i minimi retributivi.
Oggi più che mai abbiamo bisogno di una politica che non si limiti a criminalizzare l’avversario, propagandando come propria ricetta la stigmatizzazione strumentale di quanto compiuto dal predecessore, ma che, piuttosto, individui una strada maestra – che, aziendalmente, viene definita strategia – capace di valorizzare al meglio quanto di buono è già stato compiuto, per proseguire con decisione nel cammino intrapreso. Occorre quindi essere determinati nel non limitarsi a iniziative di breve periodo, ma, al contrario, perseguire visioni di lungo termine, per non divenire ostaggi di interessi particolari ed estemporanei, che tendono a favorire comportamenti opportunistici, sempre più inadeguati nell’attuale contesto.