Un nuovo tema minaccia di aggravare l’agenda già pensante del fragile Governo di larghe intese e di un Parlamento in cui l’opposizione (e parte di deputati e senatori formalmente schierati con la maggioranza) è in continua fibrillazione. Si tratta della previdenza, materia che ha fatto crollare più di un Governo. In Italia e non solo. A settembre, si dovrebbe aprire un “tavolo” per mettere a posto il “pasticciaccio brutto” degli “esodati” (chiaramente prodotto da scarsa cooperazione istituzionale e da marchingegni di imprese e sindacati per ottenere il massimo “free riding”, scaricando sulla collettività problemi aziendali e categoriali). Potrebbe essere un “tavolo tecnico” per cercare rimedi immediati, mettendo – si direbbe a Roma – una pezza qua e una pezza là.
La materia del tavolo potrebbe essere, però, ampliata, poiché dati recenti mostrano che in futuro, a ragione delle riforme che si susseguono dal 1992 e di una crisi economica strutturale, c’è il rischio che fasce della popolazione o non avranno titolo a pensione (perché non hanno contribuito per i 20 anni richiesti) oppure avranno trattamenti molto bassi. In questo dibattito, si è inserita una proposta formulata da Giuliano Amato in un articolo su Il Sole 24 Ore: un contributo di solidarietà per lavoratori ad alto reddito e pensionati ad alti trattamenti per alimentare un fondo destinato a chi rischia di restare senza pensione oppure di avere un trattamento inferiore alla stessa sussistenza.
Non si può negare che il problema esista. Già nella metà degli anni Settanta in libri pubblicati in Italia, Usa, Regno Unito e Francia ho delineato prospettive che sarebbero potute essere cupe per le fasce deboli, con periodi anche lunghi di interruzione dall’impiego, bassi salari in vita attiva. Occorre, però, tenerlo ben distinto da quello degli esodati, nodo da risolvere con massima collaborazione istituzionale e una mappatura dettagliata tale da portare a microprovvedimenti puntuali.
Non credo, però, che sia opportuno mettere sul tappeto una nuova riforma delle pensioni basata, in via surrettizia, su un aumento della pressione tributaria (il “contributo” altro non è che un’imposta “di scopo” da cui i principi generali della scienza delle finanze suggeriscono di tenersi ben lontani). Il solo accennare a una nuova riforma delle pensioni non può che avere conseguenze controproducenti sui comportamenti degli individui, delle famiglie, delle imprese. Specialmente perché dal gennaio 1993 abbiamo avuto una dozzina di riforme della previdenza, tutte decantate come definitive. Il “fondo”, poi, potrebbe, a torto o a ragione, sembrare un “poltronificio”.
Si può operare su alcuni istituti della (complessa) normativa in vigore per porre rimedio al problema. In primo luogo, occorre abbassare il vesting, il numero di anni/mesi/settimane in cui si sono versati contributi per avere titolo a previdenza. Nel gennaio 1993 è stato alzato da 15 a 20 anni, suscitando critiche (ufficiose) dell’Organizzazione internazionale del lavoro, poiché in gran parte dei paesi membri si richiedevano tra 10 e 15 anni. Inps e Ragioneria Generale dello Stato dovrebbero effettuare simulazioni quantitative per individuare un numero di anni per un vestingcompatibile con le ristrettezze di finanza pubblica.
In secondo luogo, occorre operare sull’assegno di solidarietà per gli anziani incapienti (ossia privi di mezzi), re-introducendo qualcosa di analogo all’integrazione al minimo previdenziale. In terzo luogo, occorre lanciare un vasto programma di alfabetizzazione finanziaria-previdenziale. Un tempo, almeno per i funzionari pubblici, tali programmi venivano effettuati dalla Scuola nazionale di Pubblica amministrazione, ora sembrano spariti. In quarto luogo, occorre riformare, con incentivi e disincentivi, la previdenza complementare per ridurre i fondi pensione dagli attuali circa 700 lillipuziani (non in grado di attirare risparmi né piccoli, né grandi).
Operando su queste linee si può fare molto. Senza innervosire tutti.