Un breve comunicato stampa della Corte costituzionale, alla fine della Camera di consiglio di ieri, ha informato che è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 19, 1° c. lett. b) della legge 20 maggio 1970, n. 300 (il cosiddetto “Statuto dei lavoratori”) «nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale sia costituita anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda».
La spiegazione per i non addetti ai lavori può sembrare complicata, ma può essere esplicitata e riassunta nel cosiddetto caso Fiom/ Fiat. Com’è noto, il noto sindacato dei metalmeccanici all’atto della rottura determinata dalla Fiat, con la sua uscita da Confindustria e con la scelta di dare vita a un contratto aziendale con un’efficacia al di fuori di quello stipulato a livello nazionale, si era rifiutato di sottoscriverlo generando una frattura nel movimento sindacale e contrapponendosi alla nuova linea di relazioni industriali del gruppo Fiat: non più fondata su relazioni politiche nazionali e riguardando interi comparti, con la mediazione del Governo, quanto un sistema di riferimento sindacale incentrato sull’azienda o sul gruppo, sulla politica particolare di questo e fondato sul confronto in fabbrica.
La decisione di Fiat, già di per sé molto forte, in quanto colpiva al contempo il ruolo di Confindustria, quello dei Sindacati e, in fondo, anche quello del Governo, minando la logica della contrattazione nazionale, aveva come conseguenza ulteriore di espungere dalle Rappresentanze sindacali aziendali la Fiom, applicando una disposizione dello Statuto dei lavoratori derivata dall’originario art. 19 della legge n. 300 del 1970, modificato a seguito del referendum del 1995. La formula originaria blindava le Confederazioni maggiormente rappresentative all’interno delle Rappresentanze. Il referendum voluto dai Cobas scardinava il potere di rappresentanza della “triplice” e ammetteva nelle Rappresentanze i sindacati nati spontaneamente nelle lotte sindacali degli anni ‘80 e ‘90 in contrapposizione alle posizioni dei sindacati tradizionali considerati non più propensi a difendere i diritti dei lavoratori. Con il Dpr n. 312 del 1995 le rappresentanze sindacali sono riservate ai sindacati firmatari di contratti nazionali e locali applicati nell’unità produttiva, e cioè realmente rappresentativi in azienda, anche se non aderenti ai sindacati più rappresentativi su scala nazionale.
La Corte costituzionale non abroga il principio in discorso, ma riconduce la rappresentanza non alla sottoscrizione del contratto collettivo, ma alla sola partecipazione alla negoziazione, anche senza la conclusiva sottoscrizione del contratto. La decisione – non ancora nota nelle motivazioni – che vuole risolvere un problema di democrazia sindacale all’interno della fabbrica, politicamente pone più di un interrogativo.
Innanzitutto, bisogna ricordare che il problema principale è derivato dalla circostanza che la democrazia sindacale è integralmente organizzata fuori dal disegno costituzionale e in particolare da quelle prescrizioni dell’art. 39 della Carta che sembrano essere state scritte nell’acqua. Di qui gli annosi problemi sulla nozione di “rappresentanza” dietro i quali i sindacati hanno giocato nel corso degli anni ‘70, ’80 e ’90 una partita complessa, in parte di supplenza politica del potere dei partiti, e in parte limitativa della democrazia all’interno della fabbrica.
La vicenda dei sindacati italiani è diversa da quella dei sindacati francesi, inglesi e tedeschi. In Italia, il sindacato è risultato più interessato a un ruolo di politica economica nazionale, piuttosto che di politica aziendale; di qui la differenza con quello francese. Inoltre, ha rifiutato ogni forma di responsabilità aziendale ed è questa la differenza con il sindacato tedesco; ma anche ogni responsabilità politica effettiva, come nel caso dei sindacati inglesi. Il sindacato italiano è stato pago di questo ruolo politico nazionale, anche se sul piano della responsabilità la rappresentanza sindacale è stata per lungo tempo ampiamente sbilanciata. Inutile dire che ciò sul piano aziendale tornava comodo anche alla controparte padronale, a Confindustria, perché in ultima analisi questo sistema di relazioni si traduceva in un incremento della spesa pubblica di cui anche imprese immeritevoli si avvantaggiavano.
La contestazione che ha investito i sindacati della “triplice”, con la nascita dei sindacati non controllati da Cgil Cisl e Uil, metteva in discussione proprio questo tipo di relazioni industriali, considerato poco vantaggioso dai lavoratori in seno alle aziende. La contestazione consentiva ai nuovi soggetti sindacali di intervenire sul piano della contrattazione e stipula dei contratti collettivi e sulla politica aziendale, piuttosto che sulla politica economica generale. Quando la Fiat decise di rifiutare il modello di relazioni industriali consolidato, uscendo da Confindustria, aveva in mente – anche per via della crisi economico-finanziaria – un altro sistema di relazioni fondato sull’azienda e sull’accordo interno alla fabbrica in una logica nella quale il sindacato avrebbe dovuto essere posto in posizione servente rispetto alla politica del gruppo.
Alcuni sindacati hanno seguito la linea Fiat, allettati dalla conservazione di determinati livelli occupazionali e di fantomatici investimenti quantificati in oltre 20 miliardi di euro. La Fiom diffidò della posizione del “padrone” e non sottoscrisse il contratto. Di qui l’asperità del confronto e la vicenda cui si lega la pronuncia della Corte costituzionale, che consente al sindacato negoziante, ma non sottoscrivente, di entrare nella Rappresentanza sindacale aziendale.
Ora, la sentenza del giudice costituzionale, che sulla base dei commenti Fiom viene considerata come la fine di una discriminazione, può essere anche letta come una nuova scissione tra rappresentanza e responsabilità, in quanto – diversamente da quanto si determinò per Cobas, Gilda, Orsa, ecc. – apre la strada a una conflittualità aziendale senza che sul sindacato gravi l’obbligo di giungere a un accordo che tenga insieme le ragioni dei lavoratori e quelle dell’impresa. Si può fare parte delle Rsa se si negozia, anche se non si sottoscrive il contratto.
Certamente, se vi è stata discriminazione, essa cessa con la pronuncia della Corte, ma le relazioni industriali sono definitivamente compromesse: non più nazionali e legate alla politica economica generale; non più aziendali, perché diventano il terreno per uno scontro infinito. Qual è il problema che emerge allora? I nodi della storia vengono al pettine della realtà e richiedono la mediazione politica della legge.
Gli aspetti che emergono dalla complessa vicenda Fiom/Fiat toccano due aspetti costituzionali che riguardano rispettivamente i sindacati e le imprese. Per i primi non è più procrastinabile un’attuazione compiuta e matura dell’art. 39 della Costituzione: controllo sulla democraticità degli statuti, registrazione, personalità giuridica, sottoscrizione dei contratti con valore di fonti giuridiche generali, ecc. Ciò eliminerebbe i dubbi sulla nozione di rappresentanza sindacale e sulla susseguente responsabilità delle rispettive associazioni. Per le seconde è venuto il momento di dare attuazione, anche in questo caso, compiuta e matura all’art. 46 della Carta che prevede il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende. Queste, infatti, non sono un oggetto nella disponibilità del “padrone” o, peggio ancora, di un management fatto da dirigenti privi di una prospettiva sociale e meramente rivolto alla realizzazione aziendale. L’impresa in sé è un valore al quale hanno diritto parimenti la proprietà, il management e i lavoratori.
Lo scenario che si aprirebbe con l’attuazione dell’art. 39 e dell’art. 46 sarebbe profondamente diverso e di ben altra responsabilità per tutti, ma per realizzarlo occorrerebbe molto più di un giudice costituzionale che colpisce le norme discriminatorie, occorrerebbe un potere politico forte e autorevole in grado di avere contezza dei problemi e delle soluzioni necessarie, con una politica industriale seria ed elaborata.
Tutto quello che è mancato nel caso della Fiat e, se si vuole, anche nei casi dell’Alcoa e dell’Ilva.