Stando agli annunci, la riforma delle pensioni sarebbe dovuta esser stata corretta, emendata e rivista da quel dì. Invece, nulla. Addirittura, qualunque intervento significativo dovrà aspettare la fine dell’estate, come ha fatto sapere il sottosegretario al Welfare, Carlo Dell’Arringa. Di sicuro, quando il governo lo riterrà finalmente opportuno, si lavorerà per introdurre un meccanismo di flessibilità che consenta al lavoratore di scegliere quando andare in pensione, entro una forbice stabilita. Abbiamo parlato di tutto ciò con Walter Passerini, esperto di Welfare e previdenza sociale e autore del libro “Senza pensioni”.
Perché, secondo lei, il governo continua a rinviare la riforma della riforma Fornero?
Sicuramente c’è la volontà di sanare una situazione tutt’altro che risolta e che riguarda in particolare gli esodati. Che questa aspirazione, tuttavia, sia sostenibile dal punto di vista delle risorse è dubbio. Prender tempo può indicare l’intenzione di fare i conti per capire quanti salvaguardati, oltre i 140mila, ci potranno essere.
Il governo fa bene a valutare anno per anno, o dovrebbe risolvere la vicenda una volta per tutte?
Escludo questa seconda ipotesi. Persiste la difficoltà a far emergere dal punto di vista numerico e programmatico questa realtà.
Cosa ne pensa, invece, dell’ipotesi di introdurre un meccanismo di flessibilità?
La riforma Fornero ha raggiunto l’obiettivo di fare cassa a fronte di costi sociali elevatissimi. Sarebbe, quindi, opportuno introdurre un criterio di flessibilità per garantire il coinvolgimento personale nella scelta previdenziale: obbligare le persone a restare sul lavoro fino a 66-67 anni è un modo autoritario per affrontare il problema. Inoltre, non tutti i lavoratori e i lavori sono uguali. E l’età pensionabile non può prescindere in maniera assoluta dalle strategie di vita e dalle prospettive familiari e personali.
Cosa ne pensa della proposta di Damiano di incentivare la permanenza sul lavoro con una maggiorazione del 2% dell’assegno per ogni anno di ritardo dall’uscita (a partire dai 66 anni e fino ai 70) e disincentivare l’abbandono con una riduzione analoga (a partire dai 62 anni e fino ai 66)?
Rispetto agli incentivi, sarà necessario verificare i costi e l’esistenza dell’effettiva copertura finanziaria. Quel che è certo, è che non si potrà fare marcia indietro rispetto all’anzianità contributiva di 42 anni. Rispetto, invece, ai disincentivi, dobbiamo tenere a mente una serie di considerazioni di carattere più generale.
Quali?
Già di per sé il sistema contributivo concorrerà a creare future generazioni di poveri. Non solo le pensioni saranno più base perché ancorate al Pil, ma, soprattutto, perché i giovani, spesso, lavorano a intermittenza, soffrono periodi di disoccupazione e hanno stipendi e contributi previdenziali estremamente bassi.
Quindi?
Anzitutto, andrebbe fatto un ragionamento sulla previdenza integrativa complementare collettiva gestita da fondi bilaterali, aumentando la quota di defiscalizzazione, e introducendo flessibilità nei versamenti, sia nella frequenza che nell’ammontare. Saremo, inoltre, un Paese civile quando finalmente tutti i cittadini saranno informati circa la loro situazione contributiva attraverso la busta arancione.
Trova giusto chiedere un contributo di solidarietà ai redditi sopra ai 90mila euro?
In questo momento, il contributo di solidarietà è assolutamente legittimo e necessario. E’ doveroso che tutti si impegnino a risolvere una situazione sociale molto grave. A patto che l’esborso contribuisca a migliorare la gestione delle casse previdenziali: sia di quelle dei professionisti, che hanno pochi ingressi perché molti dei giovani non riescono a raggiungere i requisiti minimi di reddito per iscriversi, che di quelle pubbliche, connotate da voragini finanziarie.
(Paolo Nessi)