Ci sono due serie di dati statistici che in Italia, a partire dagli anni ‘90, fanno pensare a una coincidenza importante, a una sorta di concatenazione: da un lato la bassa crescita – o decrescita – dell’economia, dall’altro il cattivo utilizzo nella società e nel mercato del lavoro dei giovani e del personale qualificato, spesso con alti titoli di studio, ottima conoscenza delle lingue straniere ed esperienze internazionali. È chiaro che la mancanza di crescita in Italia non dipende dalla crisi, ma affonda le sue radici indietro nel tempo e più in profondità nelle sue cause. Nello stesso lasso di tempo (1990-2012) si assiste allo spreco più grande di capitale umano che un Paese possa compiere. Contemporaneamente, in un momento in cui la classe dirigente non sembra avere le soluzioni ai problemi dell’economia e della società, questo spreco fa ancora più impressione. Basti pensare che in Italia la classe dirigente con diploma universitario è solo il 53% contro il 70% della media Ue (dati Isfol) e che l’età media della classe dirigente dagli anni ‘90 a oggi è cresciuta da 51 a 59 anni (Italents). Attualmente, anche ampliando il discorso a tutti i lavoratori, nella Pa italiana l’età media è arrivata a 50 anni, il dato più alto dell’intera Ue (Aran).
Perché allora, proprio in un momento di crisi, “teniamo in panchina” le nostre risorse migliori? Come può succedere? Com’è possibile che il nostro sistema non reagisca a questa situazione? Per due motivi: interessi individuali, anche legittimi, e un cattivo sistema di diritti, che tende a perpetrare le disuguaglianze anziché mitigarle. Il blocco del turn over nella Pa da 20 anni, la divaricazione tra insider super protetti e outsider, l’uso assistenziale della spesa pubblica e una scarsa valorizzazione del valore dell’individuo nel lavoro sono il frutto di questa situazione.
Per esempio, nel momento in cui le aziende sono in crisi, lo Stato e gli imprenditori sono costretti a liberarsi di quanti hanno un contratto flessibile, mantenendo personale pagato di più, ma non per forza più produttivo, oppure liquidandolo con pesanti buone uscite. In questo modo si “tampona” il male, ma non si guarisce la malattia e non si guarda al futuro. Questo è il vero problema del Paese. Un’ossessiva tendenza a tamponare il presente, dimenticando il futuro. Una difesa di diritti acquisiti non sempre con pieno merito e oltretutto con scarso vantaggio per la collettività.
Perché allora non collegare i diritti a degli obiettivi collettivi presenti e futuri in modo che siano realmente sostenibili per tutti e per sempre? Che sia per un azienda, per il sistema sanitario o per quello pensionistico, la storia del nostro Paese ci ha insegnato amaramente che le leggi e i diritti hanno senso se sono sostenibili e un loro ripensamento “al ribasso” è costoso e problematico. La consapevolezza guadagnata ci deve insegnare a progettare incentivi e diritti che aiutino a diffondere un’etica collettiva e non a inseguire il proprio personale interesse, con il conseguente deperimento del contesto .
La questione giovanile ci insegna che un cattivo sistema di diritti, come il nostro, si ripercuote su alcuni, spesso con grave danno per tutti. Riprogettarlo in modo più equilibrato sarà la sfida del nostro futuro, sempre che a qualcuno interessi pensarci. Ai giovani, per forza di cose, dovrebbe interessare.