Il Parlamento (e il Governo) vanno in vacanza (per non molto tempo) mentre è in atto un vero e proprio “gioco del cerino”: per il Pd e il Pdl diventa ogni giorno più difficile dividere lo stesso letto (anche senza fare l’amore), specialmente dopo la sentenza della Cassazione e le esternazioni del Giudice Esposito. Né l’uno, né l’altro dei due partiti “di Governo”, però, vuol iniziare una causa di “separazione per colpa” che potrebbe costare molto cara (in termini di consenso elettorale), dato che gli italiani sono un po’ stanchi e stufi di essere chiamati alle urne, per di più con una legge elettorale che considerano assurda. Non sarà il futuro politico di Silvio Berlusconi ad attizzare il fuoco. Lo saranno le pensioni degli italiani. Vediamo perché.



I pur litigiosi vertici del Pd hanno metabolizzato la prima parte di una massima di Paul Valéry: “L’indignazione permanente non paga”. Non ne hanno necessariamente metabolizzato la seconda, spesso ripetuta da intellettuali e leader della sinistra come Macaluso e Pellicani: “L’indignazione permanente è segno di bassezza morale”. I loro sondaggisti affermano che anche se al popolo Pd non piace il “Governo di Servizio guidato da Enrico Letta”, farlo cadere aumentando i decibel dell’“indignazione permanente” (seguendo il “partito” di Repubblica e de Il Fatto Quotidiano) comporta rischi elevatissimi.



Le pensioni, invece, sono tradizionalmente la causa efficiente (anche se spesso solo occasionale) della fine di Governi e di cicli politici. La riforma del 1968-69, ad esempio, chiuse il centrosinistra e aprì la fase che sfociò nella “solidarietà nazionale”. La riforma predisposta da Nino Cristofori (braccio destro di Andreotti e ministro del Lavoro) fece calare il sipario sul pentapartito. La riforma tentata dal Governo Berlusconi nel 1994 provocò la morte anticipata dell’esperienza di centrodestra dopo appena nove mesi al Governo. Si potrebbe continuare: la “riforma Fornero” (con l’appendice degli “esodati”) rappresenta il crepuscolo dei Governi tecnici.



Ora un nuovo tentativo di riforma è nell’aria. Il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, ha annunciato l’apertura di un “tavolo tecnico” a settembre per porre rimedio ai nodi degli “esodati”. Al tempo stesso, però, l’ex Presidente del Consiglio, Giuliano Amato, lancia proposte per un riassetto più vasto nel nome dell’equità previdenziale. Settimana scorsa i nomi, i cognomi e le foto dei “pensionati d’oro” (o di “diamante”) erano sui principali giornali.

È verosimile, quindi, che sempre che il divorzio non avvenga a fine agosto (con accuse vicendevoli di non avere rispettato i patti in materia di Imu e di Iva), la rottura si verifichi al tavolo presieduto dal buon Enrico Giovannini,

I mercati lo annusano già. Lo spread non è aumentato dopo la sentenza della Cassazione, poiché già messa in conto, e ora anzi scende. I gestori, però, guardano con preoccupazione alle fibrillazioni settembrine in cui una “vertenza previdenziale” sarebbe la scintilla che trasformerebbe in incendio tanti fuochi latenti. Il Pd sa che varie sentenze della Corte Costituzionale hanno annullato norme che prevedono, sotto celate forme, prelievi ai “pensionati d’oro”. Sa pure che a 18 anni dalla riforma Dini sono realmente pochi i lavoratori attivi che possono pensare a trattamenti previdenziali basati sul sistema retributivo. Sa anche infine che un’addizionale previdenziale su redditi (e pensioni) di alto importo farebbe aumentare il carico tributario complessivo spegnendo i piccoli e flebili barlumi di crescita.

Una “rottura” in nome dell’equità previdenziale potrebbe, però, comportare pingui dividendi elettorali, specialmente se si organizza la partita cambiando speditamente la legge elettorale. 

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