In questi giorni, i primi dati positivi sul Pil a livello europeo dopo sei trimestri con segno meno fanno sperare in una svolta nella crisi che stiamo attraversando. Per il nostro Paese l’indice ci dice solo che il segno meno resta, ma ha rallentato e stiamo quindi recuperando. Fin dall’inizio di questa crisi abbiamo però sottolineato che non sarebbe bastato aspettare che passasse la nottata. Questa crisi ridisegna a livello internazionale i rapporti di produzione e quindi obbliga tutti a individuare sentieri di cambiamento che indichino una ripresa capace di far tesoro degli errori del passato e di individuare, per ogni Paese e per ogni sistema regionale, una nuova capacità produttiva in grado di dare lavoro e sviluppo.



Al nostro Paese sono state imposte in questi anni molte misure di austerità finalizzate a rivedere il forte indebitamento e la sua crescita trinata da una spesa pubblica anch’essa in crescita. Senza una nuova capacità produttiva l’unica ricetta applicata è stata quella di puntare su un aumento delle entrate con un loop che rischia di strangolare le possibilità di ripresa dell’economia. Ma per le imprese e per il lavoro abbiamo fatto tutto ciò che era possibile e necessario?



Al Meeting di Rimini abbiamo voluto porre questo quesito perché riteniamo che molto sia ancora da fare e che scelte per favorire le imprese e il lavoro siano indispensabili per aprire una nuova fase di crescita. Il panorama da cui partiamo è quello della realtà. Oggi abbiamo perso molte imprese. Il panorama offerto dalle zone industriali che caratterizzano la grande area di sviluppo dell’asse che unisce il nord con la costa adriatica formando un triangolo che ha rappresentato l’area di crescita è segnato da capannoni in disuso, magazzini vuoti che nascondono milioni di ore di cassa integrazione che non avranno nel rientro nello stesso luogo di lavoro la loro conclusione. Un modello di sviluppo caratterizzato da distretti industriali capaci di confrontarsi con l’economia mondiale è oggi in ripiego. In ogni area solo una parte delle imprese riesce a reggere attraverso l’export, ma la maggior parte subisce la crisi e perde quote di mercato.



Seguendo la lettura che viene dalla nuova geografia del lavoro, la possibilità di essere di nuovo protagonisti di una nuova fase di sviluppo industriale passa per la capacità del territorio di avviare imprese innovative nell’industria della conoscenza, aumentando gli investimenti in poli di ricerca e sviluppo e aumentando il capitale umano di alta formazione disponibile. Tanto facile a descriversi questa realtà, quanto difficile da perseguire, a partire dal passaggio a un impegno di medio-lungo periodo dopo una stagione di ubriacatura per risultati finanziari legati solo a crescite di brevissimo termine. Passare dalla speculazione alla capacità di impegnarsi per risultati a lungo termine è una sfida per tutti, che chiede prima di tutto un lavoro sulla persona per nuovi “io” creatori di sviluppo.

A ciò si devono aggiungere due particolarità del nostro sistema. Un forte squilibrio territoriale nord-sud e un tessuto imprenditoriale caratterizzato da tante micro e piccole imprese. Una nuova politica per fare crescere poli industriali nel Mezzogiorno è indispensabile. I cali occupazionali che nel nord sono conseguenti all’inizio della crisi del 2008 hanno avuto inizio nelle regioni del sud già cinque anni prima, segno che vi è un problema di carenza di presenze produttive indipendente dai fattori di crisi che caratterizzano le dinamiche economiche internazionali.

Per il nostro sistema di imprese fatto di tante Pmi è indispensabile promuovere capacità di aggregazione. La nuova via di crescita passa dalla capacità di andare sui mercati mondiali e per un’accresciuta capacità di utilizzare funzioni dell’economia della conoscenza per potenziare e innovare prodotti e cicli produttivi. A ciò si aggiunga la necessità di investimenti in ricerca e sviluppo che sostengano i settori innovativi. Sono obiettivi possibili, ma se perseguiti da reti di imprese, da nuove collaborazioni, cioè da nuova capacità di utilizzare competenze avanzate nel sistema produttivo ancora caratterizzato da dimensioni di impresa che non permettono al singolo imprenditore di porsi da solo tali obiettivi.

Una politica industriale finalizzata a sostenere tali scelte avrebbe anche capacità di attrarre investimenti dall’estero per imprese interessate a insediarsi in un Paese che ha una tradizione di lavoratori capaci di saldare creatività e capacità professionale. Certo, occorre avere una disponibilità ad abbattere quelle barriere burocratiche che oggi fanno sì che aprire un’attività produttiva assomigli a una corsa a ostacoli, mentre altri paesi fanno scelte per semplificare l’arrivo di insediamenti industriali.

Sappiamo che il lavoro non si inventa. Una nuova fase di crescita è indispensabile per tornare a far aumentare il tasso di occupazione. Favorire l’occupazione nei nuovi settori dell’economia della conoscenza (dal marketing all’export, nella green economy e nei nuovi servizi finanziari come nella salute) non solo risponde a dare sbocchi lavorativi qualificati, ma è anche moltiplicatore per creare nuova occupazione nei servizi a supporto riqualificando nel complesso la realtà economica del territorio. Studiare di più e lavorare di più sono obiettivi perseguibili. Non si tratta di chiedere sforzi in più a chi è già impegnato, ma si tratta di aumentare la qualità del capitale umano disponibile e far sì che più persone siano attive lungo tutto l’arco della vita lavorativa. Per questo serve una rete di servizi al lavoro pubblici e privati efficiente, capace di assicurare tutele universalistiche a chi deve passare da lavoro a lavoro. Sostegno al reddito, disponibilità ad accettare nuove opportunità lavorative, formazione a sostegno dell’occupabilità delle persone.

Ma anche il lavoro in questa fase di passaggio chiede nuove regole. Bastano le vecchie regole dei contratti nazionali oppure vi è la necessità di passare a contratti aziendali e territoriali capaci di rilanciare produttività e occupazione? La vicenda Fiat non èsolo il caso di una grande impresa multinazionale che pone un problema particolare, ma evidenzia una questione che riguarda tutto il sistema imprenditoriale. Certo, le 4000 medie imprese italiane che reggono la sfida internazionale e che fanno sì che il nostro Paese sia ancora industrialmente importante hanno problemi simili e il sistema delle Pmi che vuole crescere pone problemi analoghi, anche se richiede soluzioni modulate più sul territorio che sulla singola impresa. È una sfida che riguarda tutte le rappresentanze sindacali e politiche per aprire una nuova fase dove impresa e lavoro costruiscano rapporti virtuosi, per una nuova crescita economica che valorizzi tutti gli “io” disposti a mettersi in gioco.

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