In questa settimana al Meeting di Rimini si è affrontato più volte il tema del lavoro. Non poteva essere diversamente, vista l’emergenza sociale, economica e occupazionale del nostro Paese. Occorre fare un po’ di ordine, tra i provvedimenti attuati recentemente, quelli in discussione e le scelte strategiche di lungo periodo. Il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, oltre al tema dell’occupazione giovanile e del sostegno alle imprese, ha posto l’accento su un altro tema, gli esodati. Ritengo che il tema degli esodati sia determinante ed emblematico, oserei dire quasi una “premessa” per la ripresa. Con la riforma delle pensioni varata a dicembre del 2011, i molti che avevano sottoscritto accordi di prepensionamento con la propria azienda si sono trovati imbrogliati. Ingannati, perché le regole del gioco sono cambiate durante la partita: molti lavoratori hanno accettato un licenziamento con la consapevolezza che dopo qualche anno (coperto da Inps e impresa) sarebbero andati in pensione.
Questa per molti fu anche una scelta di responsabilità, perché in caso di crisi aziendale i primi a essere licenziati sono i neoassunti o coloro che non hanno parenti a carico, i più giovani sostanzialmente, in quanto più attrezzati per trovare un nuovo posto di lavoro a differenza dei lavoratori più anziani (difficilmente un cinquantacinquenne o sessantenne riuscirebbe a trovare una nuova occupazione). La riforma delle pensioni dell’allora Ministro Fornero, introducendo immediatamente un incremento dell’età pensionabile, ha fatto sì che molti lavoratori dopo aver sottoscritto accordi di incentivo all’esodo si trovassero a metà del guado: accettando, per esempio, un accordo che li accompagnava (dal punto di vista retributivo e contributivo) per tre anni al raggiungimento del diritto alla pensione, a fronte di un incremento dei requisiti necessari, si sono trovati a non poter accedere al trattamento previdenziale.
Oltre a essere una problematica di tipo occupazionale, la questione degli esodati ha una valenza anche culturale: il segno di uno Stato non amico della gente, scollegato dalla realtà, ma soprattutto ingiusto. Quindi affrontare in modo definitivo tale questione (grazie all’attività e alla denuncia del sindacato, già 130.000 lavoratori sono stati salvaguardati), ha soprattutto una valenza politica nel “senso alto” del termine, dove uno Stato amico della gente riconosce l’errore di valutazione e torna sui suoi passi. Un segnale di questo tipo, oltre a sanare una problematica sociale, può generare una rinnovata fiducia tra cittadino e istituzione.
Naturalmente la questione cardine del tema lavoro riguarda l’occupazione. Su queste pagine, in queste ultime settimane, sono già stati esplicitati e commentati i provvedimenti adottati dal governo per il rilancio dell’economia e della crescita. Anche come sindacato abbiamo giudicato positivamente gli sforzi fatti, pur denunciando l’insufficienza delle risorse stanziate per gli ammortizzatori sociali. Adesso, per rilanciare realmente l’occupazione, occorre fare un salto di qualità politico: basta provvedimenti volti a rispondere all’emergenza, bisogna iniziare a dar vita a quelle riforme strutturali di cui il nostro Paese ha estremo bisogno per attirare investimenti, generare fiducia e speranza.
Non credo che allo stato attuale (tra vincoli di bilancio e realizzabilità degli interventi) nuovi provvedimenti spot, dedicati all’occupazione, possano essere da stimolo per la crescita. Credo invece che occorre mettere mano all’impianto complessivo. Non si attireranno mai gli investimenti fino a quanto in Italia l’energia costa mediamente un terzo in più degli altri paesi europei; bisogna realizzare un piano infrastrutturale, generare un servizio di reti di trasporto all’avanguardia ed efficiente; occorre certezza nel merito e nei tempi della giustizia; dobbiamo rivisitare tutto l’impianto fiscale (non solo avere la preoccupazione di rimandare di altri sei mesi l’aumento dell’Iva) perché in Italia il costo del lavoro è troppo, troppo alto. Queste riforme sono necessarie per attrarre investimenti, ma soprattutto per mantenere coloro che già hanno scelto il nostro Paese.
È necessario però generare anche fiducia e speranza. Perché senza un’ipotesi positiva sulla realtà non varrebbe la pena costruire, non varrebbe la pena generare opere e lavoro. Quindi occorre mettersi di nuovo insieme, favorire l’operosità dal basso, generare nuovi ambiti dove la responsabilità e la libertà del singolo possano essere accompagnate ed esaltate. Questo è un compito del singolo individuo, ma in particolare dei corpi intermedi quali associazioni, sindacati, fondazioni, ecc. Questi soggetti hanno la responsabilità di favorire “l’emergenza uomo”, ovvero il suo emergere, il suo respirare, il tornare a galla di un desiderio di operosità, utilità e carità.
Nessun provvedimento potrà sostituire questo compito che in logica sussidiaria è affidato primariamente alla società.