Lo abbiamo anticipato, su questa testata, a luglio e lo abbiamo analizzato con un certo grado di dettaglio ad agosto: la vera mina che potrà far saltare il Governo Letta (che potrebbe essere seguito da un esecutivo di scopo Letta-2 mirato a una nuova legge elettorale) saranno, ancora una volta, le pensioni, tema che già in passato ha spesso innescato crisi di governo. Pochi giorni dopo la nascita del Governo Letta, diversi colleghi economisti e amici personali hanno raccomandato al ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Enrico Giovanni, di non toccare il “dossier” sulla previdenza, limitandosi, al massimo, a fare qualche aggiustamento per i cosiddetti “esodati”. Invece, pare che ci si avvii verso una nuova riforma della previdenza, prendendo lo spunto dalle “pensioni d’oro” e dalle “pensioni d’argento” per rimettere in discussione l’intera impalcatura che si è messa in atto faticosamente dalla riforma Dini del 1995.



Per di più ci sta imbarcando in questa avventura senza avere le statistiche di base, senza avere effettuato una stima dei costi e dei benefici, senza avere calcolato l’impatto distributivo e dopo più di una sentenza della Corte Costituzionale secondo cui occorre tenere conto (a qualsiasi fine, ma soprattutto a scopi perequativi) del reddito (e se si vuole del capitale) complessivo, non soltanto del trattamento previdenziale. Un personaggio di “Edipo Re” di Sofocle afferma: “Gli dei accecano coloro che vogliono perdere”. Ci si sta mettendo, a occhi bendati, in un vicolo cieco.



Nel 2001, a sei anni dalla riforma Dini, un gruppo di economisti (tra cui Mauro Maré, che ha lavorato molto strettamente con Giuliano Amato) aveva previsto (in una “Guida” alle riforme delle pensioni) che il sistema previdenziale contributivo avrebbe prodotto una divergenza tra le pensioni di quanti erano ancora titolari del regime retributivo e le giovani generazioni. La “Guida” aveva anche formulato una serie di proposte da attuarsi speditamente. Numerose sono state realizzate, ma tardivamente e spesso rendendo più complesso il sistema, ma anche più flessibile. È comunque già in atto un riordino complessivo che potrebbe in gran misura essere migliorato riducendo il numero di anni necessari per avere titolo a un trattamento (il “vesting”). I miglioramenti essenziali sono stati già indicati su questa testata.



Le quattro proposte di legge presentate in Parlamento non sembrano, però, tenerne conto. Alcune sono demagogia pura (e tentativi di intese tra Pd, Sel e M5S per giungere a “maggioranze” differenti dall’attuale). La proposta formulata da Scelta Civica può essere una buona base di partenza: colpirebbe le “pensioni d’argento”, oltre che quelle d’oro con un contributo di solidarietà progressivo e temporaneo, tale da ridurre il differenziale tra trattamenti previdenziali e contributi effettivamente versati in vita lavorativa. Non precisa ancora né l’entità del contributo, né il numero di anni per cui si dovrebbe versare. E, soprattutto, non prevede nulla per il vesting. Si scontra con due serie difficoltà tecniche, cui si aggiunge un ostacolo politico di non poco conto.

In primo luogo, per i dipendenti pubblici si può fare il ricomputo dei versamenti solo dal 1996 (per i privati si può andare molto più in là): ciò rende oggettivamente impossibile un calcolo di quella che sarebbe l’eventuale “pensione contributiva” da utilizzare come parametro per correggere, con il contributo di solidarietà, il trattamento retributivo. Inoltre, dal 1995, il trattamento non ha più un “tetto” a quello che si avrebbe dopo 40 anni di contributi, ma quanto più tardi si va in pensione (e più contributi si versano) tanto più alto è il trattamento previdenziale. In pratica, molti alti funzionari dello Stato e alti gradi delle Forze armate già ricevono pensioni “contributive” non “retributive”. Anche molti lavoratori in fasce meno elevate della scala dell’impiego hanno optato per restare più a lungo in impiego: ciò spiega il graduale ritardo nell’età media effettiva di andata in pensione verificatosi in questi anni.

Il pasticcio è enorme anche perché – questo è il punto politico – la proposta pare diretta proprio contro quei corpi dello Stato (alta burocrazia, Forze armate, magistrati, specialmente quelli amministrativi, della Corte dei Conti e del Consiglio di Stato) che dovrebbe collaborare a definirla e attuarla. È, però, anche diretta contro tutti coloro che hanno ritardato il pensionamento, anche se su pressante invito dei Governi che da vent’anni si succedono.

La dinamite è proprio là: può un Governo oggettivamente debole andare allo scontro con le alte sfere dei corpi dello Stato di cui ha bisogno per governare? Può andare contro quella “maggioranza (sinora) silenziosa” che ha ritardato, anche per senso civico, il proprio pensionamento? Mentre – come già detto – il tema stesso delle pensioni solleva fibrillazioni in tutta la società.

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