Il consiglio dei ministri si riunisce oggi pomeriggio con l’intento di dipanare la matassa dell’Imu. Per coprire l’abolizione dell’imposta sulla prima casa mancano ancora due miliardi e si pensa di rastrellarli come al solito attingendo alla imposizione indiretta. La lista è lunga quanto usuale: alcol, sigarette, giochi, per il momento resta fuori la benzina, ma chissà. E c’è l’incognita dell’Iva, perché non ci sono soldi in cassa per evitare il rincaro dell’un per cento. Tutto nella peggiore tradizione di governi che non hanno nessun chiaro programma di riforma della tassazione, nonostante il gran parlare di rivedere un sistema allo stesso tempo oneroso e iniquo. Prevale, ancora una volta, la logica del rattoppo: si apre un buco di qua e se ne chiude un altro di là. Dal 30 aprile ad oggi non si fa che parlare di trovare le risorse (quattro miliardi), adesso è il momento di decidere.



Il ministero dell’economia ha elaborato un corposo documento di quasi cento pagine con ben nove proposte e una serie di varianti, insomma tutte le ipotesi possibili, senza una chiara indicazione sulla scelta del governo. Un utile strumento di lavoro, un perfetto manuale da ufficio studi. Ma governare significa scegliere non scrivere il menu. Si dice che l’esecutivo si orienti verso una tassa sui servizi, come richiesto dai comuni. Nemmeno questa sarà una soluzione facile e probabilmente richiederà una fase transitoria. Ancora rinvii? Vedremo.



Enrico Letta si era insediato il 30 aprile indicando due priorità tributarie. Una, dettata dalla ragion politica, riguarda la tassazione sulla casa e l’abolizione dell’Imu sull’abitazione principale. Un aut aut imposto da Silvio Berlusconi e accettato dal presidente del Consiglio come dai suoi ministri. La seconda questione, indotta dalla ragion economica, riguarda la pressione sul lavoro, il cuneo fiscale (variante più moderna della vecchissima fiscalizzazione degli oneri sociali). All’interno di un disavanzo pubblico sul pil del tre per cento, per l’una e per l’altra operazione non ci sono somme sufficienti. La coperta è corta ed è prevalsa la ragion politica. Qualcosa è stato fatto, come gli incentivi per l’assunzione dei giovani, ma ridurre il peso delle tasse sul costo del lavoro richiede ben altro.



Secondo molti economisti ed esperti, anche di destra non solo di sinistra (la Confindustria, per esempio) abolire l’Imu sulla prima casa è un errore, una inutile se non pericolosa deviazione dalla via maestra: il cuneo fiscale, appunto, e le aliquote sui redditi. In realtà, Berlusconi ha fatto bene a sollevare la questione della casa. Non solo per il suo valore simbolico, oltre che sociale ed economico, ma anche perché si tratta dell’unica vera imposta patrimoniale ordinaria introdotta in questi anni. Il centrodestra è sempre stato contrario e su questo ha trovato grande consenso elettorale. 

Secondo Luigi Einaudi “non esiste una distinzione sostanziale tra imposta sul reddito ed imposta sul capitale o patrimonio. L’una si converte automaticamente nell’altra. Tuttavia esiste una qualche distinzione formale; ed accade in questa materia tributaria che la forma, le apparenze, i miti abbiano una importanza grande”. Una importanza politica, appunto.

A parte ciò, è arrivato il momento di discutere alla luce del sole su che cosa far gravare i tributi in un paese come l’Italia dove, ancor oggi, il peso nettamente maggiore è sul lavoro dipendente, sulle imposte dirette, nonostante la profonda trasformazione sociale avvenuta dai tempi della riforma Vanoni del 1951 o anche all’introduzione della ritenuta alla fonte nel 1973. Naturalmente, ciò può acuire le divergenze. La sinistra tradizionalmente vuole difendere i salari contro rendite e profitti. La destra è divisa tra le partite Iva e i rentiers. In mezzo ci sono infinite variazioni sul tema. Ma è bene che vengano alla luce divergenze culturali e conflitto tra interessi, poi si potrà trovare una mediazione, meglio ancora una sintesi generale. Esaurire le proprie energie in aggiustamenti marginali, non porta a niente.

Premessa di tutto è “dare col fatto la sensazione precisa che è finita l’era lunga dell’incremento continuo ed esasperante delle imposte”, tanto per citare ancora Einaudi, quelle ordinarie sul reddito e ancor più il moltiplicarsi di balzelli che fanno sì che “in Italia nessuno crede, nemmanco a scuoiarlo vivo, che le imposte in futuro possano diminuire. Aumentare sì, diminuire mai”. Einaudi scriveva nel 1946. Ma prendiamo tempi più recenti, gli ultimi dieci anni: ebbene la pressione tributaria è passata dal 28 al 30 per cento del prodotto lordo, quella fiscale (che comprende anche i contributi) dal 41 al 44%. Tutto ciò per inseguire inutilmente le spese che sono salite nello stesso periodo dal 44,7 al 48,1. Invertire questa tendenza sarebbe stata la vera soluzione di continuità.

E’ facile replicare che una riforma di vasto respiro è poco realistica mentre siamo ancora in piena crisi e, soprattutto, non è nelle corde di un esecutivo d’emergenza. Invece no, come ha scritto Luca Ricolfi sulla Stampa. Perché le grandi coalizioni servono proprio per sciogliere i grandi ingorghi che impediscono di muoversi, per dipanare le matasse più ingarbugliate. Sembrava questa la logica di partenza anche per l’esperimento Letta. Con il passare delle settimane e dei mesi, invece, la spinta iniziale, l’ispirazione originaria, s’è perduta ed è prevalso il galleggiamento. Hanno vinto i conservatori sui riformatori, anche in materia di tasse, come sul lavoro, sulle imprese, nella politica bancaria, alfa e omega della crisi. E il governo delle larghe intese rischia di essere ricordato per quel che non ha fatto, mentre almeno Mario Monti può vantare la riforma delle pensioni e una stangata fiscale con la quale ha aggravato sì la recessione, ma ha messo al sicuro le finanze pubbliche asfaltando la strada per i suoi successori.