Sono saliti a quota 9 milioni gli italiani che dall’inizio della crisi vivono nell’area della sofferenza (disoccupati, cassaintegrati scoraggiati) e del disagio occupazionale (precari, partime involontari). Lo rileva un rapporto dell’associazione Bruno Trentin–Isf-Ires della Cgil, che evidenzia il progressivo deterioramento del mercato del lavoro italiano. Per Maurizio Del Conte, professore di Diritto del lavoro e Diritto privato nell’Università Bocconi di Milano, la ripresa del Pil prevista nel terzo trimestre di quest’anno non porterà benefici sul versante dell’occupazione; la crisi infatti è intervenuta su un mercato del lavoro che era già avviato verso situazioni di degrado. Ci aspetta dunque un periodo di ripresa del Pil senza occupazione aggiuntiva. E questo determinerà una situazione di ulteriore depressione del mercato del lavoro.



In che senso?

Se è comprensibile un alto tasso di disoccupazione in fase di recessione diventa ancora meno comprensibile la stessa cosa in fase di ripresa. Ma quei dati evidenziano un’altra cosa molto importante.  

Quale?

Questi 9 milioni di italiani, suddivisi tra disoccupati “puri” e sottoccupati, in realtà segnalano un elemento di degrado strutturale del nostro mercato del lavoro. La crisi in realtà è intervenuta su un mercato del lavoro che era già avviato verso situazioni di degrado diffuso. Per questo non è sufficiente che il ciclo economico si inverta per poter invertire la tendenza pre-crisi. Non è vero, come ha sostenuto anche di recente il ministro Zanonato che quando crescerà il Pil crescerà anche l’Italia. Purtroppo non è una conseguenza automatica.



Cosa si può fare per invertire quella tendenza?

Il problema occupazionale, il problema della sottoccupazione, dei lavori sottopagati, dei precari, di un mercato del lavoro che dà scarsissime possibilità di crescita professionale e ancor meno di crescita retributiva, sta nella struttura stessa del nostro mercato del lavoro e prescinde dalla crisi. Chiaramente negli ultimi tempi gli sforzi si sono concentrati per far fronte alla crisi attraverso gli ammortizzatori sociali; era necessario farlo e lo sarà anche in futuro. In realtà, occorre intervenire più in profondità.

Che tipo di interventi occorrono?



Si dovrebbero attuare politiche che vadano oltre la crisi per rifare le condizioni di mercato del lavoro nel nostro paese. A cominciare dal cambiamento del nostro tessuto produttivo.

In che modo?

In larga parte, il nostro tessuto produttivo insegue la competizione globale sull’abbassamento dei costi e quindi sull’abbassamento della qualità. Noi andiamo a competere con Cina, Brasile, India, con i paesi emergenti cercando di metterci sul loro terreno. Quello dei bassi costi. Ma è un errore drammatico, perché su quel terreno noi non possiamo che risultare perdenti. L’unica possibilità che abbiamo è capire che il lavoro deve essere valorizzato e per essere valorizzato bisogna creare condizioni a valore aggiunto.

Cioè?

In sostanza bisogna riconvertire il nostro sistema industriale, ma anche i servizi. Il nostro settore servizi è fatto in larga parte da servizi a basso valore aggiunto. Quelli delle pulizie ad esempio, piuttosto che quelli delle mense, della ristorazione sono servizi nei quali il valore aggiunto per ora lavorata è modestissimo. Non riusciamo a competere, tant’è vero che abbiamo bisogno di importare manodopera dall’estero perché solo la manodopera straniera è disposta a lavorare a quelle condizioni. Bisogna creare una sorta di convergenza fra innalzamento della qualità del lavoro, e redditività del lavoro per ora lavorata, con l’innalzamento della qualità produttiva, del tessuto produttivo.

 

Come?

Dobbiamo riconvertire i nostri sistemi produttivi su prodotti e servizi a maggior valore aggiunto in modo da poter competere con quelle economie che, pur avendo un costo del lavoro elevato, vendono prodotti di valore superiore, prodotti per i quali c’è ancora mercato. Come dimostra ad esempio la Germania, che ha un costo del lavoro nettamente superiore al nostro eppure una produttività, cioè un valore per ora lavorata nettamente superiore a quello italiano. Non è un paradosso, anzi. È proprio la chiave del successo tedesco.

 

In concreto cosa si può fare per rilanciare l’occupazione?

Puntare sulle infrastrutture e i trasporti. La classifica che è uscita qualche giorno fa sulla competitività della Regione Lombardia, al di là del perenne problema della macchina burocratica e dei costi interni per ottenere le licenze, dice che c’è anche un problema di progressivo isolamento. Non si è investito sulle infrastrutture. Si cominci quindi a investire nelle infrastrutture e si diano incentivi alle imprese che fanno ricerca e sviluppo.

 

Altro settore che versa in condizioni drammatiche.

Pensi che una recente indagine ha mostrato che le nostre imprese investono sempre meno, anno su anno, in ricerca e sviluppo. I nostri giovani laureati riescono a trovare sempre meno posto proprio nell’area della ricerca e sviluppo. Questo significa che in generale c’è una politica miope che mira a conservare il poco che è rimasto e non a creare nuove opportunità su prodotti nuovi e mercati nuovi.