La disoccupazione giovanile è in crescita costante. Ogni intervento sul tema occupazionale segnala che questa è la questione principale del nostro mercato del lavoro, che pure è caratterizzato da forti squilibri. Certo, oggi il peso della questione giovanile ha assunto caratteristiche peculiari. Ma non è da oggi che l’Italia non è un Paese per giovani. Il tasso di disoccupazione giovanile era sceso alla fine degli anni ‘90, ma ora è tornato a essere quello di oltre 20 anni fa. Anche le proposte avanzate in questi mesi ricordano purtroppo proposte già sentite: agevolazioni per le assunzioni e contratti ad hoc che grazie alle agevolazioni si spera diventino stabili.
Se la questione giovanile non è un problema determinato solo da questa crisi merita di essere affrontato in modo più strutturale. Il percorso scuola-lavoro è rimasto difficile. L’orientamento sia nella fase di scelta dei percorsi scolastici che poi per l’ingresso nel mondo del lavoro è un servizio offerto casualmente e non generalizzato. Eppure, ormai da anni la legge Biagi assegna a presidi e rettori la facoltà di dirigere vere e proprie agenzie per il lavoro. Potrebbero cioè strutturarsi per offrire ai propri studenti tutta la gamma di servizi al lavoro fino a veri e propri inserimenti lavorativi. Sarebbe la più estesa rete di servizi per il lavoro che il Paese può darsi in poco tempo e rivolta alla fascia che necessita oggi di maggiori tutele.
Se l’offerta di opportunità per i giovani che sollecita l’Europa vuole diventare realtà non ci si può dimenticare che oltre i Centri per l’impiego e le Agenzie per il lavoro devono avere un ruolo nella governance e nell’offerta di servizi anche le sedi scolastiche e universitarie. D’altro canto, l’offerta di un’opportunità rivolta a tutti i giovani, se si vuole rispettare il principio di universalità, non può che essere fatta direttamente alla fine dei percorsi scolastici e di studio e non può essere rinviata a un ipotetico incontro dei giovani con i Centri per l’impiego. Ciò permetterebbe di puntare a reti effettive con le imprese del territorio per realizzare stage reali e verificare l’efficacia dei percorsi scolastici sulla base degli inserimenti al lavoro ottenuti.
Resterebbero poi i giovani disoccupati, circa 700.000, che non ritrovano lavoro. Per loro una proposta di orientamento ed eventuale formazione finalizzata a un inserimento lavorativo può essere la base (oltre a eventuali incentivi economici modulati sulla durata della disoccupazione) per reali servizi al lavoro offerti da una rete fatta dal pubblico e da operatori privati che operi costantemente sulle esigenze delle imprese locali.
Molto può ancora fare una formazione on the job. Ma dobbiamo intenderci sugli strumenti contrattuali. Tirocini e stage non possono essere la forma incontrollata e generalizzata per le assunzioni giovanili. Non sono contratti di lavoro, ma opportunità per prove di inserimento lavorativo e formativo. Avendo ormai acquisito la rete delle Cob (Comunicazioni obbligatorie) funzionante la si usi per mettere fine agli abusi e non si autorizzi più di uno stage a persona. Ciò ci rinvia alla questione di trovare una forma di inserimento lavorativo che sia un reale contratto di lavoro e che tenga conto della richiesta di flessibilità, certezza dei costi e onerosità che avanzano le imprese, soprattutto nel tessuto di Pmi che caratterizza il sistema economico italiano.
Il contratto di apprendistato professionalizzante risponde solo in parte alle esigenze del mercato del lavoro reale. La caratteristica di essere un contratto a doppia valenza formativa e lavorativa non facilita il suo utilizzo. D’altro canto, i numeri dei contratti di apprendistato dimostrano che non può ritenersi l’unico strumento a supporto dell’impegno per il rilancio della occupazione giovanile. Diverso sarebbe un contratto permanente e di lavoro finalizzato al raggiungimento di determinate competenze professionali certificate che permetterebbe ai giovani di aumentare la propria occupabilità e alle imprese di non essere oberate da vincoli formali e burocratici.
Resta poi la necessità di un’offerta mirata per i Neet. Un’analisi specifica è però richiesta per questa categoria di giovani. Va premesso che oggi circolano valutazioni numeriche troppo aleatorie. Si dà spesso per scontato che i Neet siano pari a oltre tre volte il numero dei giovani disoccupati. Sarebbe il primo caso dove gli “scoraggiati” superano con una proporzione così squilibrata chi è attivo sul mercato del lavoro. Un’analisi statistica più precisa è indispensabile per definire progetti mirati ed efficaci. In ogni caso, tale categoria di giovani svantaggiati è composta da fasce di età molto diverse, con competenze ed esigenze variegate che richiedono interventi calibrati per tenere conto delle differenze.
Mentre per chi è già oltre l’età dei diplomati si tratta di promuovere una “emersione” attraverso un contatto con un Centro per l’impiego o un’Agenzia per il lavoro e quindi definire percorsi personalizzati di formazione/lavoro, si deve altresì recuperare anche la fascia più giovane. Ricordiamo che in Italia oltre il 18% dei giovani abbandona la scuola perlopiù senza concludere il percorso obbligatorio. Per questa fascia di ragazzi non può esserci solo un percorso lavorativo senza un tentativo di recupero di competenze formative.
Il contratto di apprendistato di primo livello potrebbe in questo caso essere la soluzione se però adeguato all’obiettivo che ci si propone. Un rapporto fra formazione professionale, obbligo scolastico e un terzo anno di formazione on the job direttamente presso l’impresa potrebbe aprire un nuovo canale contro la dispersione di risorse umane e lavorative importanti.
Certo, ciò richiede una disponibilità a rivedere costi e regole sindacali e burocratiche che oggi hanno pesato nel non fare mai partire questo livello di apprendistato. Ma in una fase come questa possiamo ancora permetterci di non affrontare il tema dei più giovani che lasciano la scuola per difendere i privilegi di qualche burocrazia?