La frase, sintetica e stizzita, pronunciata qualche giorno fa a Cernobbio dal Ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni è probabilmente inopportuna nei toni, ma difficilmente contestabile nei contenuti: il recentissimo “Patto di Genova” (2 settembre) tra Confindustria e i sindacati «presenta un conto della spesa molto elevato che viene direttamente posto a carico del bilancio statale, con poco realismo». Dal 2009 (anno della firma dell’accordo separato di riforma degli assetti contrattuali) a oggi, le relazioni industriali italiane hanno conosciuto momenti di alterna responsabilità, intervallando intese certamente storiche e capaci di cambiare (in meglio) gli equilibri dell’economia del nostro Paese e, quindi, il benessere dei lavoratori e dei cittadini, ad accordi tutti politici, funzionali alla conquista di qualche titolo di giornale, ma non certo alla maggiore stabilità industriale e commerciale. In questa delicatissima fase storica nella quale l’Italia si gioca non tanto l’equilibro di questo o quel Governo, ma quella credibilità internazionale che può permetterle di riagganciare la ripresa tra i primi e non inseguirla con gli ultimi, le parti sociali sono chiamate alla difficile responsabilità di compiere scelte effettivamente storiche.



Tra queste difficile ricomprendere quella di Genova. Chi, tra i politici e i semplici cittadini di questo Paese, non è d’accordo con l’urgenza di un «sistema fiscale efficiente, semplice, trasparente e certo»? Chi non vorrebbe la «riduzione del carico fiscale su lavoro e imprese»? Chi non crede che siano importanti «lotta all’evasione fiscale», «innovazione», «green economy», «finanza responsabile», «riduzione del costo dell’energia»? Quante volte si è sentito straparlare di «revisione degli assetti istituzionali ed efficienza della spesa pubblica»? Questi sono i contenuti dell’intesa tra Confindustria e sindacati.



Finalmente le ricette giuste e di buon senso da opporre a chi ne sostiene di diverse? Certamente no, poiché se c’è una cosa nella quale in Italia va rafforzandosi una certa trasversalità (taciuta) sono le misure economiche, che da Berlusconi a Monti e a Letta rimangono tutto sommato simili. Allora cosa si oppone al pensiero d’avanguardia delle parti sociali italiane? La realtà. Quella stessa realtà cinicamente ricordata dal Ministro dell’Economia: non ci sono i soldi. Eppure questo dato di difficoltà oggettiva, difficilmente bollabile come “scusa” del Governo per l’inazione, non è citato nelle argomentazioni sindacali, che finiscono così per essere giustissime, ma teoriche, viziate dalla dimenticanza di una premessa sostanziale.



Il sindacato in Italia ha sempre avuto una notevole funzione politica, tanto per la storica vicinanza al mondo partitico, quanto per l’effettiva diffusione sociale e la particolare struttura confederale intercategoriale. Negli scorsi decenni, ben più che ora, il sindacato si è sentito legittimato a intervenire su tutti i temi di gestione della cosa pubblica, anche i più lontani dalle problematiche del “lavoro”: dall’ambiente all’assetto scolastico, dal federalismo alla difesa. Tale radice “interventista” non si perde (ammesso, ma non concesso, che debba essere persa) in qualche anno di commissariamento tecnico della politica. Ancor più importante, però, è non perdere la capacità di discernimento tra gli ambiti nei quali le “riforme” sono a disposizione diretta delle parti sociali e quelli che sono invece prerogative della decisione, per quanto concertata, dei soggetti politici deputati a operare in nome dell’intera collettività. La capacità di influenza sui secondi è solitamente proporzionale al grado di responsabilità dimostrata nei primi.

Sono questi i giorni nei quali i sindacati si giocano una buona fetta della loro indipendenza futura. È sempre più compatto il fronte di chi chiede una legge sulla rappresentanza, oltre sessant’anni dopo quell’articolo 39 non a caso inattuato per così lungo tempo. In gioco vi è il controllo pubblico dell’azione sindacale, innanzitutto tramite il censimento del numero degli iscritti. L’apparente risoluzione di un problema reale, ovvero la certezza e l’esigibilità degli accordi sottoscritti a livello nazionale e aziendale, potrebbe essere il “cavallo di Troia” per incominciare a legiferare in materia di attività sindacale e spazi di azione della rappresentanza di imprese e lavoratori. Uno di quegli ambiti a disposizione diretta delle relazioni industriali.

La pericolosa coincidenza di un Governo composto (anche) da diversi sostenitori della prevalenza della legge su tutto e, quindi, della necessità di legiferare su tutto (in particolare alcune anime del Pd), l’interesse storico del principale sindacato italiano verso la “via parlamentare” e la forte pressione mediatica esercitata da Fiat in questa direzione in ragione della risoluzione di problemi interni, potrebbe causare inediti danni al delicato equilibrio della cosiddetta autonomia collettiva.

L’alternativa per i protagonisti delle relazioni industriali è ben significata dagli ultimi due accordi unitariamente sottoscritti: l’accordo sulla rappresentanza del 31 maggio e l’accordo per l’occupazione e la crescita del 2 settembre. Responsabile, autonomo, innovativo il primo; politico, incentrato sull’azione del Governo, banale nei contenuti il secondo. L’intesa del 31 maggio è la prima dimostrazione che i sindacati possono definire autonomamente e con maggiore grado di effettività le “regole del gioco”, anche quelle relative alla misurazione della propria rappresentanza. Il patto del 2 settembre va nella direzione opposta: chiede fondi e azioni di riforma al Governo senza “scambiare” impegni concreti, ingolosendolo, quindi, a intervenire senza troppi scrupoli anche sulle relazioni industriali.

L’intesa sottoscritta il 4 settembre a Mirafiori per garantire i nuovi investimenti di Fiat è stato un forte segnale di realismo del sindacato. Un nuovo accordo di regolamentazione attuativa del Protocollo del 31 maggio (che ha fissato i principi, ma non è ancora pienamente operativo) o la sottoscrizione di un simile accordo anche in settori diversi dall’industria, pur preservando storia e peculiarità di ogni ambito, potrebbero essere il punto vincente segnato dal fronte dei sostenitori dell’autonomia collettiva contro i sostenitori della legge e dell’attuazione dell’articolo 39 della Costituzione.

 

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