Come reso noto dall’Istat qualche giorno fa, tra il 2010 e il 2013 il numero degli occupati nella fascia 18-34 anni è passato da 6,3 a 5,3 milioni, crollando di oltre il 15%. I più colpiti sono i neolaureati: tra i 25 e i 34 anni il calo è di 750mila posti. Il “Pacchetto Lavoro” del Governo Letta riuscirà a rispondere al problema occupazionale e, in particolare, al dramma giovanile? Lo abbiamo chiesto al Professor Michele Tiraboschi, direttore scientifico di Adapt – Centro Studi internazionali e comparati “Marco Biagi”, che oggi propone a Modena il convegno Il “Pacchetto Lavoro” del governo Letta.
Professore, crede che gli “interventi urgenti per la promozione dell’occupazione, in particolare giovanile” siano misure efficaci considerato il momento specifico dell’economia e del lavoro?
Il Pacchetto Lavoro poteva segnare un “cambio di marcia” in materia di legislazione del lavoro che purtroppo non c’è stato. Il risultato finale è un piano per il lavoro senza una visione del futuro e senza una chiara progettualità. Il Governo ha scelto di intervenire a margine, limitandosi a correggere i più vistosi difetti della legge Fornero, approvata solo un anno fa. Nulla è però stato fatto per rispondere alla crescente domanda di semplificazione e certezza di imprese e lavoratori, ormai rassegnati a subire corposi e complessi interventi normativi sempre più burocratici, autoreferenziali e dipendenti da futuri decreti o atti amministrativi che aspettano anni prima di essere approvati. Nel provvedimento vi sono comunque misure di incentivazione dell’occupazione giovanile che vanno analizzate con attenzione specie con riferimento a stage e apprendistato che sono di particolare importanza per i nostri studenti come ponte di accesso a un mercato del lavoro sempre più difficile e selettivo.
Cosa manca a completamento di misure urgenti?
È indubbiamente vero che la crisi che stiamo attraversando è di eccezionale intensità e che la difficoltà di trovare risposte adeguate trova la sua spiegazione in errori del passato che vanno ben al di là delle incessanti turbolenze dei mercati finanziari. Giusto dunque che il Governo si arrovelli con rinnovato slancio progettuale per trovare nuove soluzioni a problemi che ci trasciniamo da anni, e bene anche le prime misure adottate che, pur nell’oggettiva penuria di risorse, sono comunque qualcosa di positivo in un contesto occupazionale che, specie per i giovani, pare senza speranza. Tuttavia, su temi sensibili e delicati come quelli del lavoro occorre evitare facili promesse e false illusioni, perché la vera svolta non potrà che dipendere da un rinnovato clima di fiducia da parte delle imprese che ancora stenta a emergere e che la retorica degli annunci certo non aiuta. Anche perché, in questa difficile fase dell’economia, le imprese non hanno tanti alibi per non assumere, quanto un problema più basilare che, molto semplicemente, è quello di sopravvivere. Sulla regolazione del mercato del lavoro l’impressione è, insomma, che il legislatore sia ancora pericolosamente fermo a metà del guado, nel punto preciso in cui è stato portato dalla Riforma Fornero, senza sapere se tornare al punto di partenza o se invece percorrere con decisione l’ultimo tratto che ancora manca per la piena ed effettiva modernizzazione del nostro mercato del lavoro.
Dall’Europa sono arrivati 1,5 miliardi di euro a sostegno di interventi per l’occupazione giovanile che saranno spesi secondo le linee del programma Youth Guarantee, investendo molto quindi sui servizi pubblici per l’impiego. Lei come li avrebbe utilizzati?
Sarebbe facile cadere nella provocazione di alimentare la polemica sull’inefficienza dei servizi pubblici per l’impiego, ma non è questo il punto. Se davvero si vuole una “garanzia per i giovani” allora bisogna comprendere che questa è possibile solo attraverso una politica integrata che coinvolga scuola, istruzione, ricerca, mondo del lavoro e operatori del mercato del lavoro. Sperare che la “salvezza” contro la piaga della disoccupazione dei giovani possa provenire dalla messa in bilancio di alcune risorse aggiuntive è illusorio. Non è finanziando i centri per l’impiego che si creano posti di lavoro. È solo creando raccordi e ponti tra realtà che ancora oggi sono separate che si fa, invece, un investimento di lungo periodo perché realmente strutturale.
Al di là dei proclami, ritiene che il governo Letta si stia muovendo in continuità con la riforma Fornero o sia più vicino allo spirito della legge Biagi?
Come ho detto poc’anzi, si è trattato di un intervento ben poco riformatore perché, per quanto corredato da proclami pregevoli, non è riuscito a intervenire con una vera strategia orientata al cambiamento e alla modernizzazione del mercato del lavoro. Il Pacchetto Lavoro ha voluto ridurre le storture della precedente Riforma Fornero annunciando, nel contempo, di voler porre rimedio con misure innovative all’annoso problema della disoccupazione giovanile. Esito che non c’è stato vista la modesta intensità degli interventi. Se da una parte c’è stata un espressa volontà della Riforma Fornero di andare controcorrente rispetto alla Legge Biagi, determinando invero conseguenze peggiorative per il mercato del lavoro italiano, il Pacchetto Lavoro del Governo Letta non è stato in grado di modificare incisivamente le sue storture, risultando fortemente inadeguato.
A proposito di cuneo fiscale sono circolate ieri delle stime secondo le quali sgravando il costo del lavoro di 5 miliardi si possano al momento creare 30mila posti di lavoro in più. Cosa ne pensa di questo possibile intervento?
In un Paese come il nostro, caratterizzato da bassa produttività ed elevati tassi di lavoro nero, la riduzione del cuneo fiscale è una priorità, ma solo se realizzata attraverso interventi strutturali e collegata a significative innovazioni nel sistema di relazioni industriali e di lavoro. In caso contrario, sarebbe uno spreco di risorse pubbliche, come dimostra la vicenda della detassazione del salario di produttività che è stata concessa anche in assenza di innovazioni nell’organizzazione del lavoro e del funzionamento del sistema di relazioni industriali
Cosa ne pensa della richiesta di Marchionne di una legge sulla rappresentanza?
Che dire? Una legge sulla rappresentanza è un tema che ciclicamente torna ad appassionare gli addetti ai lavori e l’opinione pubblica. Io non credo, però, che la soluzione stia in una legge che rischia, alla lunga, di cristallizzare i rapporti tra datori di lavoro e sindacati. Non bisogna dimenticare che quello della Fiat è un caso unico nel panorama italiano, come conferma anche la storia di questi ultimi anni. Pensare di fare una legge avendo come riferimento il modello di fabbrica che c’è a Torino rischia di essere un grave errore di prospettiva. La maggior parte delle aziende italiane, infatti, ha caratteristiche dimensionali, e non solo, diverse da Mirafiori. Si bloccherebbero quindi le relazioni industriali dell’intero Paese. A questa possibile evoluzione penso sia meglio rispondere lasciando il campo aperto a libere relazioni industriali in cui gli attori si riconoscono e si legittimano a vicenda, senza la copertura di una legge dello Stato. Solo così ci potrebbe essere un salto di qualità e di maturità in tutti i soggetti coinvolti.
Fatto salvo il problema dell’autonomia delle Parti, come si può garantire e incentivare chi investe in Italia?
Questo è il vero nodo della questione. Pensiamo all’ultimo anno. In materia di lavoro abbiamo avuto due riforme: una targata Monti-Fornero e una targata Letta-Giovannini. Al di là dei nomi e dei singoli provvedimenti, chi investirebbe in un Paese nel quale non si sono ancora completati i decreti attuativi di una legge sul lavoro che già si mette in cantiere e se ne approva un’altra? A questo si aggiunge il “come” le norme vengono scritte: senza un raccordo tra un articolo e il successivo; con un tasso di tecnicismo tale che scoraggia i giuslavoristi, figuriamoci gli uomini di impresa. È la mancanza di una visione delle politiche del lavoro nel loro complesso il vero nervo scoperto del nostro Paese. Una riforma deve avere come prospettiva, almeno, lo spazio temporale di un investimento aziendale che si misura in anni, non in mesi. Fino a quando si vareranno interventi dal respiro corto, nessun investitore straniero verrà a scommettere in Italia. Anzi, sarà sempre più difficile trattenere quelli che già ci sono.
Il particolare momento di incertezza politica potrebbe anche portare alla caduta dell’esecutivo. Cosa teme per il futuro del lavoro?
Negli ultimi tre anni la guida politica non ha contribuito a rilanciare il mercato del lavoro posizionandosi su riforme sbagliate (come la legge Fornero) o solo annunciate (come il piano Letta per il lavoro che si riduce in pochi incentivi economici prevalentemente a sostegno di stage e tirocini formativi). Ancora il sistema di relazioni industriali non è entrato nel nuovo millennio abbandonando schemi e logiche del passato che condizionano e penalizzano il nostro mercato del lavoro. Qui la politica può davvero poco, specie se debole e poco rappresentativa come l’attuale. Serve semmai uno scatto di orgoglio delle parti sociali a cui spetta far transitare il mercato del lavoro italiano verso il futuro.
(Giuseppe Sabella)
In collaborazione con www.think-in.it