Una recente ricerca promossa dal sindacato della Funzione Pubblica della Cgil di Milano e dall’Università statale del capoluogo lombardo, con il coordinamento di Ida Regalia, su un campione rappresentativo di dipendenti pubblici del comprensorio (n=3500 dip) evidenzia uno spaccato interessante e per certi versi rivoluzionario delle percezioni e delle condizioni di lavoro di questo universo e ci consente di fare il punto della situazione. Sebbene, infatti, la vulgata tradizionale voglia i dipendenti pubblici intensamente egualitaristi, poco proattivi e molto attenti a procedure formali e burocratiche, i dati raccolti ci raccontano una realtà decisamente diversa. Innanzitutto, ben il 93% dei rispondenti, quando interrogato sui fattori imprescindibili per migliorare l’efficienza della Pa e il servizio al cittadino, cita una maggiore “selezione meritocratica della dirigenza” e, a poca distanza (88%), l’organizzazione del lavoro “per obiettivi”, che determini promozioni e incentivi sulla base del “merito individuale”.



Tra i fattori che rendono più insoddisfacente la prestazione lavorativa nel mondo pubblico sono emerse, oltre all’appiattimento eccessivo delle fasce retributive, percentuali basse di dipendenti soddisfatti per quanto riguarda la “crescita professionale” (12%), “l’autonomia sul lavoro” (27%), il “riconoscimento professionale” (29%) e il rapporto con i superiori. Questi dati gettano una luce nuova e particolare su un mondo che imputa spesso al sindacato una ostinata difesa dell’esistente. Questa iniziativa e i suoi risultati mettono invece “con le spalle al muro” quanti, in posizioni direttive, non hanno introdotto più meritocrazia nel Paese o non vorranno farlo nel prossimo futuro, a partire anche da se stessi. Per questo motivo una riorganizzazione del lavoro nella Pa non sarebbe solo utile, ma anche auspicata dagli stessi dipendenti pubblici, come ci dicono chiaramente i dati della ricerca.



Un cambiamento così importante non sarebbe certo semplice e accettato in ogni sua parte. Sarebbe infatti interessante capire quanto, in una gestione del personale più “meritocratica”, verrebbero accettate delle differenze retributive in ragione delle performances, invece che per anzianità, e da chi verrebbero accertate e valutate le prestazioni, visto il non totale gradimento per i superiori, per la politica e per soggetti esterni alle amministrazioni registrati nei dati della ricerca. Da questo punto di vista vorrei segnalare il ruolo residuale di Formez e Civit, dai vertici troppo politicizzati, e della Corte dei Conti, che, al netto del fondamentale ruolo di controllo che esercita, rimane spesso incagliata in una visione formalistico/contabile degli enti. Rimane quindi ancora fondamentalmente aperto il tema di chi ha le competenze e l’indipendenza necessaria per valutare il merito nel settore pubblico.



In conclusione i dati supportano ancora una volta la necessità, aldilà di ogni banalizzazione, di una forte modifica del modello organizzativo del lavoro Pubblico prima di ogni altra decisione e innovazione nel settore. Tale cambiamento, che non richiederebbe costi aggiuntivi, ma sarebbe “a costo 0”, recuperando risorse dagli sprechi eccessivi e dagli incentivi “a pioggia”, dovrebbe riguardare innanzitutto i contratti collettivi, introducendo fasce retributive e di inquadramento più snelle e flessibili soprattutto per la dirigenza, principi di responsabilità e autonomia maggiori, valutazione per obiettivi, maggiore flessibilità organizzativa, anche in senso geografico, e una qualche forma di controllo che permetta di eliminare i casi di dolo e scarsa produttività, non necessariamente per via giudiziaria, oltre che soddisfare le necessità di utenti e amministrazioni.

Sarebbe importante poi creare un vero mercato del lavoro pubblico, con la possibilità per le amministrazioni virtuose di attrarre i dipendenti migliori e di allontanare quelli non adeguati. Tale dinamicità avrebbe diversi impatti positivi a cominciare dalla comunicazione e introduzione estesa di modelli organizzativi e case histories di successo su tutto il territorio nazionale, fino a rompere quei legami consociativi e talvolta clientelari che minano la credibilità e fiducia nel dipendente pubblico, obbligando la Pa all’introduzione di forme concorsuali e procedimenti burocratici che non consentono una gestione snella ed efficiente delle risorse.

Purtroppo il dibattito pubblico e politico si focalizza ancora sulla necessità di spendere invece che di spendere bene e sull’obbligo di difendere i posti di lavoro anzichè difendere quelli utili. Nel momento in cui i modelli organizzativi vincenti, soprattutto nei servizi, si concentrano su retention dei talenti, incentivi non monetari, worklife balance, formazione, modelli di leadership, di cooperazione e di comunicazione innovativi, nei settori tradizionali dell’economia italiani stentano a diffondersi i basilari criteri della professionalità, della managerialità e il valore del lavoro e dell’individuo.

Persiste invece una visione assistenziale del lavoro per cui tutti i lavoratori e i posti di lavoro sono uguali. Questa idea danneggia pesantemente il lavoratore e il cittadino. Allo stesso tempo, la gestione “per decreti”, volta alla modernizzazione degli enti pubblici, si traduce nell’incapacità di rendere operativa una spending review degna di questo nome e nell’introdurre reali innovazioni di servizio e di processo per il cittadino.

Una buona notizia è invece rappresentata dalla sempre maggiore trasparenza, agevolata dall’ingresso di nuove forze politiche, che stanno scoperchiando sempre più numerose aree di opacità mostrando in particolare i costi di una dirigenza pubblica indegni di un Paese civile e molto superiori rispetto alle altre democrazie occidentali. Si spera che accompagnata a una maggiore capacità di visione, l’indignazione popolare porti alla cancellazione di queste numerose sacche di privilegio anche se sancite dal diritto. Importante sarà anche che vecchie e nuove forze politiche sposino una visione più legata al valore e all’utilità del lavoro, lasciando assistenzialismo, privilegi e diritti negli alvei della democrazia, ma fuori dal mondo produttivo e dei servizi pubblici.