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Esaminando quanto fatto dal Governo Letta sul tema dello sviluppo economico e in particolare del mercato del lavoro, dobbiamo purtroppo rilevare, ancora una volta, la mancanza di chiarezza di una vision complessiva e, conseguentemente, di quelle azioni organiche che potrebbero essere in grado di rilanciare il Paese. Basti ricordare che l’iniziativa principale del “pacchetto lavoro” è stata quella di accorciare i tempi dello “stop & go” per i contratti a tempo determinato, limitandosi così a rendere nuovamente praticabile una distorsione derivante da una norma preesistente.



Ma procediamo con ordine. Personalmente ritengo sia evidente la necessità di definire, in primis, un ben preciso orientamento di fondo strategico Paese, che determini sia le decisioni da prendere sul sistema economico, sia quelle inerenti il mercato del lavoro. A seconda, per esempio, che si orienti il Paese su una strategia di bassi costi (che finirebbe per accostarci alla Cina) o di differenziazione qualitativa (che ha come benchmark la Germania), va definita una direzione di sviluppo del mercato del lavoro in linea con tale orientamento. Chi vogliamo essere e dove vogliamo posizionarci nel mondo globalizzato? A partire dalle risposte a questo quesito, si renderanno necessarie, all’atto pratico, una serie di azioni chiare e definite.



Riguardo al sistema economico, mi preme sottolineare quali sono i punti che, a mio parere, necessitano della massima attenzione e su cui è quanto mai urgente definire una direzione risoluta e condivisa. Anzitutto occorre rivitalizzare anche nel breve quella parte del sistema produttivo che ha retto alla crisi, favorendone la competitività; programmare e sostenere – ad esempio detassandoli – gli investimenti per l’innovazione tecnologica e migliorare il rapporto delle imprese col sistema bancario e finanziario; nel medio periodo è poi necessario far crescere le nostre aziende in competenze, dimensioni, capacità di generare valore e di esportarlo. È inoltre decisivo intervenire sulla mastodontica macchina dello Stato, riducendone il costo e contemporaneamente incrementando l’efficienza dell’apparato pubblico.



Ma, ancora più importante – e da attuare nel più breve tempo possibile – è fondamentale tagliare la pressione fiscale sul lavoro per ridare slancio alle imprese, ai consumi e all’intera economia. In che modo questo può avvenire senza appesantire ulteriormente il nostro debito pubblico che, come ha recentemente affermato il ministro dell’Economia, costa in interessi a ogni cittadino ben 1.400 euro all’anno? In primis trasferendo il più possibile le imposte dalla produzione alla rendita e rafforzando la lotta ad elusione ed evasione fiscale, oltre che – ed è decisivo anche per gli investitori – riducendo la spesa pubblica incapace di generare valore aggiunto. Questo può avvenire, a sua volta, limitando la burocrazia, introducendo i costi standard sugli acquisti, semplificando e utilizzando le migliori pratiche derivanti anche da altri Paesi, fino a migliorare certezza e tempi dei processi civili.

La coerenza con una strategia Paese – come si diceva – è però decisiva anche per far ripartire il mercato del lavoro. Occorre dunque ricondurre tutto ciò che è già stato fatto a una direzione organica e tenere ben presente che il mercato del lavoro, da un lato, risente dei trend economici, ma dall’altro può rappresentare una leva di miglioramento o peggioramento degli stessi trend; leva che oggi non possiamo in alcun modo esimerci dal considerare.

A questo proposito, credo vi siano alcuni temi decisamente prioritari e alcuni snodi culturali chiave – che propongo in forma di domanda, quale spunto di riflessione per tutti, e che tratteremo da queste colonne nelle prossime settimane – su cui sia la politica che le parti sociali hanno il compito di pronunciarsi, proprio per tracciare una via maestra da seguire e far evolvere il mercato del lavoro nella direzione migliore per tutti.

A) Politiche attive e politiche passive: vogliamo continuare a supportare in termini puramente assistenzialistici chi è in difficoltà o creare un sistema che contribuisca a promuovere dinamicamente una soluzione definitiva ai problemi? Come configurare servizi per il lavoro in grado di aumentare “l’occupabilità” e la capacità di generare valore per le imprese? E con quale rapporto tra pubblico e privato e tra Stato e Regioni?

B) Giovani, formazione, lavoro, apprendistato: intendiamo continuare a usare i giovani come “carne da macello” per ridurre i costi di produzione o vogliamo cominciare a concepirli, finalmente, come il capitale umano del futuro? Intendiamo dunque considerare l’apprendistato alla stregua di un puro strumento di riduzione dei costi o vogliamo che diventi la strada maestra per persone e aziende che puntano ad investire sulla capacità di generare valore attraverso la formazione?

C) Contratti a tempo indeterminato e flessibilità in entrata e uscita: riteniamo utile mantenere un sistema che protegga il “posto di lavoro” degli assunti – ancorché improduttivo – e scaricare le esigenze di flessibilità solo su chi sta entrando nel mercato del lavoro o desideriamo un sistema che fa della combinazione di flessibilità e sicurezza un valore da costruire per tutti?

D) Competitività dell’ordinamento e semplificazione normativa: intendiamo perpetrare un sistema normativo la cui complicazione fa la fortuna delle caste dei giudici e degli avvocati o vogliamo riformularlo, per renderlo più attrattivo anche per gli investimenti esteri?

E) Nuove relazioni industriali: preferiamo relazioni industriali che, per difendere il potere delle associazioni datoriali e sindacali, punti a rivestire un ruolo più politico che sociale attraverso il proprio peso nelle trattative nazionali o intendiamo favorire accordi decentrati davvero in grado di coinvolgere la società nella propria evoluzione?

F) Invecchiamento attivo, ricollocazione, pensioni e patto intergenerazionale: riteniamo adeguato il mantenimento di un sistema che assiste i più anziani a discapito dei giovani, o ne preferiamo uno in cui chi ha più esperienza possa diventare una preziosa risorsa per la crescita professionale delle giovani leve?

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