Nel già acceso dibattito sulla riforma delle pensioni, su cui il governo Letta sembra non riuscire andare oltre qualche flebile annuncio, si inseriscono anche gli stessi pensionati. I segretari generali di Spi-Cgil, Fnp-Cisl e Uilp-Uil hanno inviato di recente una lettera al premier per richiamare l’attenzione dell’esecutivo sulle “difficili condizioni di vita della popolazione anziana del nostro Paese, fortemente penalizzata negli ultimi anni dal blocco della rivalutazione delle pensioni, dall’aumento di tasse, imposte e tariffe e dai tagli al welfare e ai trasferimenti a Regioni e Comuni”. I pensionati, che in tutti questi anni “hanno sempre fatto la loro parte e contribuito in misura determinante alle manovre di risanamento dei conti pubblici”, oggi chiedono un segnale forte da parte del governo e del Parlamento, che restituisca loro “quella fiducia nelle istituzioni che purtroppo stanno perdendo”. Ma cosa sta facendo a tal proposito l’attuale esecutivo? Lo abbiamo chiesto a Carlo Alberto Nicolini, avvocato e docente di Diritto della lavoro presso l’Università di Macerata.
Il governo Letta aveva promesso di rimettere mano alla riforma delle pensioni. Misure correttive però non se ne sono viste. In più c’è il problema degli esodati. Non ci sono le condizioni per intervenire?
Quello degli esodati è un problema aperto, dal momento che non sappiamo ancora il numero esatto e la spesa effettiva. Prima di tutto va chiuso questo argomento. Fare una nuova riforma strutturale, che secondo me non si farà, prima di vedere com’è andato il regime transitorio mi pare un salto nel buio. Anche per un altro motivo.
Quale?
Se si fa una riforma la si fa per dare qualcosa di più ai pensionati. Ma la riforma è stata abbastanza severa. Bisogna trovare i soldi. Tuttavia ci sono priorità maggiori: penso al cuneo fiscale, all’Iva. Ho l’impressione che parlare in questo momento di pensioni e di rivedere la riforma Fornero sia un po’ campato in aria. Magari verrò smentito dai fatti, ma mi pare che in questo momento non abbiamo un governo, un parlamento e dei conti pubblici in grado di sostenere una riforma strutturale. Abbiamo dimenticato anche un altro aspetto.
Di che si tratta?
Di un altro aspetto transitorio che riguarda la spending review nella pubblica amministrazione. Era previsto un dimagrimento della PA con un taglio lineare del 10% dei dirigenti. Una prima tranche di questi – chiamiamoli – “licenziati” riguardava chi avrebbe maturato i requisiti pensionistici, i vecchi requisiti, nel 2014. Di questo non si sa più nulla. Mi pare che si stia andando molto a rilento per definire questi tagli. Questo è importante.
Perché è importante?
Il legislatore vede il pensionamento in due modi differenti. Dal punto di vista della spesa è sfavorevole per il settore privato, perché pensionare i dipendenti privati costa. È invece favorevole ad applicare il regime pensionistico anticipato ai lavoratori pubblici perché lì risparmia; costa meno infatti un pensionato di un lavoratore attivo. Anche questo – come quello degli esodati – è un problema aperto. Non sappiamo – a quanto mi consta – quanti siano gli uni e gli altri. E, di conseguenza, quanto costino. Sono due tronconi – quello degli esodati e quello dei lavoratori del pubblico impiego – strettamente connessi.
Senza trascurare che le pensioni del futuro saranno basse.
È un problema di cui nessuno parla. Tutta la nostra attenzione è rivolta a quale età andremo in pensione, mentre ci occupiamo poco dei coefficienti di trasformazione. Che sono il vero elemento devastante per chi vuole andare in pensione.
In che senso?
È chiaro che se vado in pensione prima, il coefficiente di trasformazione è più basso; sono penalizzato. Non solo. Il coefficiente di trasformazione cambia con un ritmo abbastanza veloce, adesso ogni tre anni. E con l’ultimo decreto ministeriale si è abbassato notevolmente.
Può fare un esempio?
In base al decreto ministeriale 11.5.2012 a 57 anni il coefficiente di trasformazione è 4,304%, a 60 è 6,541% e a 65 è 5,435%. Come vede, cambia moltissimo. Sono variazioni percentuali a due cifre. Passare da 4,304% a 6,541% vuol dire quasi il 50% in più. Non solo.
Cos’altro?
Nel 1995, a 65 anni il coefficiente di trasformazione era 6,136%, nel 2013 è 5,435%. Significa che con un montante contributivo individuale di 500mila euro nel ’95 a 65 anni avevo una pensione superiore a 30mila euro, per la precisione di 30.680. Nel 2013 di 27.175. Se in più conta che questi coefficienti si determinano non solo in relazione agli andamenti demografici ma anche rispetto all’andamento effettivo del tasso di variazione del Pil rispetto all’andamento dei redditi soggetti a contribuzione previdenziale…
Cosa significa?
Significa che diminuendo i redditi soggetti a contribuzione previdenziale diminuiscono anche i coefficienti di trasformazione. Con un tasso di disoccupazione così alto come quello che abbiamo oggi, vuol dire che in prospettiva avremo un’ulteriore variazione peggiorativa dei coefficienti di trasformazione.
In sostanza, pensioni ancora più basse.
Non so fino a che punto i lavoratori aspirino ad andare in pensione tanto presto, visto che l’assegno sarà un bel po’ basso. Perché le cose migliorino è necessario che aumenti il reddito da sottoporre a contribuzione, cioè maggiori redditi da lavoro e un maggior numero di occupati.