In Italia, soprattutto a seguito dei dati drammatici sulla disoccupazione, sui Neet, cioè sui giovani che né studiano né lavorano, si fa un gran parlare di cultura del lavoro. A volte più come scontata parola d’ordine che come spunto in positivo per cercare, come già in altri paesi europei, delle vie d’uscita praticabili e concretamente condivisibili. Secondo un sano riformismo. Proprio in riferimento a questi problemi aperti, mi permetto di consigliare caldamente un volume curato da Tiziano Treu, già senatore ed ex ministro del Lavoro, presentato nei giorni scorsi a Roma.
Il titolo è impegnativo: “Employability per persone e imprese”, per i tipi di Guerini e Associati all’interno della collana “Il futuro del lavoro, I lavori del futuro” in collaborazione con Gi Group Academy (la fondazione di Gi Group, prima multinazionale italiana del lavoro, nata per promuovere lo sviluppo della cultura del lavoro) e Intoo (società di Gi Group leader in Italia nei servizi di continuità professionale). “Employability” significa “l’essere atto al lavoro”, cioè l’essere idoneo al lavoro.
Il tema è dunque come combattere la disoccupazione, valorizzando, appunto, la formazione, iniziale e in itinere, di abilità, competenze, capacità. In vista del passaggio fondamentale nel diritto al lavoro: dallo Statuto dei Lavoratori allo Statuto dei Lavori. Mentre nel mondo del privato, ad esempio, è più comprensibile e compreso questo passaggio, nonostante note resistenze conservatrici, nella nostra Pubblica amministrazione è tutto un cantiere ancora da costruire. Pensiamo, visti i numeri, al mondo della scuola, col mito, tuttora in voga, dell’anzianità di servizio come unico criterio per la determinazione delle graduatorie ai vari livelli. Un ferro vecchio, causa di ingiustizie e disconoscimenti, in particolare della gran parte dei docenti di qualità che danno passione e cuore, oltre che competenze accertabili.
Gli ultimi dati Istat sulla disoccupazione dovrebbero costringere, finalmente, a riforme di struttura. Oltre le resistenze corporative da parte di alcune sigle sindacali e politiche. Mi riferisco qui non solo al tasso di disoccupazione che ha toccato quota 12%, con oltre tre milioni di persone in cerca di lavoro, ma, in particolare, al crollo delle assunzioni dei giovani dai 25 ai 34 anni. Poi potremmo fermarci sui disoccupati di lunga durata, poco considerati nel dibattito pubblico, vale a dire coloro che non hanno un impiego da più di 12 mesi, non lo trovano e non possono contare su alcun tipo di sussidio. Costoro, secondo dati del ministero del Lavoro, in cinque anni sono addirittura raddoppiati, passando dai 704mila del 2007 a 1,439 milioni di fine 2012. Nel 2013 si è registrato un ulteriore incremento del 25%, il che sta a dire che più di un disoccupato su due è di lungo corso. La maggioranza di questi (724mila nell’ultimo anno) ha più di 35 anni e gli uomini sono di poco più numerosi rispetto alle donne (371mila contro 353mila).
Per queste situazioni c’è, potremmo chiederci, una legislazione sociale adeguata? È questa, in sintesi, la materia studiata nel volume curato da Treu. Un contributo importante per le politiche attive del lavoro. Ritroviamo, come adeguata comparazione, il confronto con analoghe esperienze europee, in particolare di Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi e Spagna. Queste comparazioni ci offrono materiale per dire che, se il licenziamento fosse accompagnato da programmi di ricollocamento costruiti intorno alle esigenze di ogni singolo lavoratore, il periodo di disoccupazione potrebbe essere notevolmente ridotto. Questo l’anello centrale.
Ed è in relazione a questo punto qualificante che, secondo Treu, l’Italia sconta una sorta di deficit culturale, un deficit che imprigiona le scelte in materia lavorativa in una logica di difesa passiva del posto di lavoro, a scapito, appunto, dello sviluppo dell’employability. Con la conseguenza di irrigidire, nel caso italiano, un mercato del lavoro che invece richiede dinamicità, flessibilità, reali pari opportunità, e quindi concreta equità, per la capacità di risposta alle sempre nuove richieste glocali. “È invece necessario sposare un sistema di politiche attive del lavoro che da un lato sgravino lo Stato da una funzione assistenzialista, costosa e inefficace, e dall’altro creino opportunità concrete di reinserimento”, conclude Treu.
Dalle politiche passive alle politiche attive. Oltre il vecchio assistenzialismo del nostro welfare. C’è materia per un concreto programma di governo, oltre i soliti slogan.