Aria di restyling sulla riforma delle pensioni varata dall’ex Ministro Fornero. Per dire la verità da diversi mesi gli annunci non mancano, incalzati da relative smentite e controdichiarazioni. La riforma, così come concepita, non piace a nessuno e in effetti si possono evidenziare diverse aree di miglioramento, ma a livello politico tutti vorrebbero cogliere al balzo il pallone della sua impopolarità improvvisando dei palleggi acrobatici che riescano a strappare qualche applauso tra l’elettorato e, non si sa mai, magari qualche voto.
Le velleità calcistiche di riforma dei nostri politici si scontrano però con la dura realtà dei conti, considerando che la riforma Fornero è certamente stato l’intervento più consistente in termini di contenimento della spesa pubblica a medio-lungo termine realizzato non solo dal governo Monti, ma probabilmente da tutti gli esecutivi che si sono succeduti in queste ultime legislature. Di fatto, a ragione o no, è stato lo strumento principale utilizzato per garantire la tenuta dei conti a lungo termine ed evitare il default, quindi è assolutamente sensato che qualsiasi tipo di intervento venga valutato con la massima attenzione, considerando gli impatti su una voce di spesa che rappresenta quasi un terzo del bilancio pubblico.
Qualcosa già è stato fatto con la recente Legge di stabilità, allentando i cordoni della borsa relativamente alla rivalutazione degli assegni pensionistici, prevedendo delle indicizzazioni decrescenti all’aumentare dell’importo dell’assegno. Altre misure sono in discussione e il dibattito è vivace e quotidianamente alimentato, questo va riconosciuto. Resta da vedere quanto di queste discussioni troverà poi reale applicazione, in che misura e quali effetti sarà in grado di produrre in termini di equità generale, ma soprattutto in considerazione di una sempre più irrinunciabile equità generazionale, visto e considerato che oggi le fasce più giovani di lavoratori pagano un conto salato in termini di contributi da versare per finanziare un sistema pensionistico che in gran parte è basato sulla logica del sistema retributivo, cioè una logica che non li riguarderà.
Il metodo di calcolo retributivo collegava l’importo della pensione all’entità della retribuzione da ultima busta paga. Il sistema si basa sull’idea di garantire al cittadino una pensione tale da consentirgli un tenore di vita pari ai livelli del periodo lavorativo. L’evidenza empirica italiana ci dimostra però che, quantomeno per come è stato gestito, a lungo andare questosistema è micidiale, perché per garantire a milioni di pensionati entrate in linea con quanto raggiunto a fine carriera lavorativa (e tendenzialmente a fine carriera i valori di retribuzione sono i massimi raggiunti), lo Stato ha letteralmente svuotato le casse, incassando meno di quanto ha pagato. Di fatto, la scelta in passato è stata quella di scaricare sulle generazioni future i costi e le incertezze di un sistema che non era in grado di garantire un sostanziale equilibrio a lungo termine tra entrate e uscite e il sistema politico ha la grave colpa di esserne stato pienamente consapevole.
A conti fatti oggi ci ritroviamo quindi con milioni di pensionati che percepiscono un guadagno notevolmente superiore alla quota di contributi versati durante la carriera professionale. L’unica soluzione certa per sanare la situazione e ristabilire un equilibrio di equità generazionale sarebbe fare ciò che appare improponibile in un Paese in cui i diritti acquisiti sono intoccabili e che rischia quindi passare come una mera provocazione: abolire per tutti il sistema retributivo, anche con efficacia retroattiva, rimettendo tutti sullo stesso piano.
A onor del vero una delle numerose mozioni presentate nelle ultime settimane tra maggioranza e opposizione e recentemente discusse dalla Camera sembrava, almeno in parte, voler percorrere questa strada. Il testo impegnava il governo “a procedere alle operazioni di calcolo e di stima necessarie per individuare la parte delle rendite previdenziali privilegiate che non corrisponde a contribuzione effettivamente versata; ad assumere un’iniziativa per disporre in via sperimentale e transitoria l’applicazione a tutte le pensioni superiori all’importo di 60.000 euro annui di un meccanismo caratterizzato da una trattenuta alla fonte, con aliquote progressive per scaglioni, sul differenziale esistente tra l’ammontare della pensione liquidata e l’ammontare della pensione che sarebbe invece liquidata ove la sua quantificazione avesse luogo per intero con il metodo contributivo; a destinare il gettito derivante da tali trattenute al finanziamento di misure volte a rafforzare il sostegno alle fasce più deboli e maggiormente colpite dalla crisi, anche attraverso un rafforzamento di servizi di assistenza che il peso della crisi ha reso sempre più inaccessibili per molte famiglie”.
L’aspetto negativo della proposta, oltre ai dubbi sull’effettiva praticabilità e al numero apparentemente esiguo delle situazioni coinvolte, era rappresentato dal fatto che le risorse eventualmente drenate non sarebbero comunque state utilizzate in un’ottica di riequilibrio del sistema pensionistico, ma destinate ad altri e generici scopi, non risolvendo la questione generazionale. Si trattava comunque di una base interessante su cui poter discutere, ma anche questa proposta è finita dritta nel tritacarne legislativo e la maggioranza ha poi preferito approvare una mozione molto generica che invita il governo a “monitorare gli effetti delle misure contenute nella Legge di stabilità 2014”, valutando in seguito nuove norme che realizzino “maggiore equità” su pensioni d’oro e cumulabilità dell’assegno pensionistico. Un modo elegante per dire tutto e niente e, soprattutto, per non decidere.
Tra le altre ipotesi allo studio alcune riguardano la cosiddetta “flessibilità in uscita”, ovvero proposte tese a favorire l’accompagnamento alla pensione dei lavoratori più anziani, nell’ottica di agevolare l’ingresso dei più giovani nel mondo del lavoro, anche in considerazione della drammaticità dei tassi di disoccupazione giovanile che preoccupano sempre di più. Verso questa direzione rema una proposta depositata da qualche mese da un ex Ministro del Lavoro, Cesare Damiano, la quale prevede la possibilità che il lavoratore possa andare in pensione in un intervallo di età tra i 62 e i 70 anni, a fronte di una penalizzazione al massimo dell’8%, ovviamente se lascia il lavoro prima dell’età pensionabile standard. Tale proposta è di fatto stata bocciata dai tecnici del ministero in quanto ritenuta troppo onerosa e non sostenibile per le casse pubbliche.
Negli ultimi giorni pare invece tornata fortemente in auge una proposta dell’attuale ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, sul cosiddetto “prestito pensionistico”: per chi vuole lasciare il lavoro anticipatamente, ad esempio un paio di anni prima del pensionamento effettivo, ci sarebbe la possibilità di ricevere un assegno (potrebbe essere l’80% dello stipendio) pagato dall’Inps, che poi dovrà ripagare negli anni successivi. Ciò significa che, una volta in pensione, dall’assegno previdenziale verrebbe trattenuta una certa percentuale (potrebbe essere indicativamente tra il 10% e il 15%).
In sostanza il lavoratore si troverebbe ad andare in pensione con un debito verso lo Stato, dopo una vita di sacrifici fatti versando contributi. Verrebbe da chiedersi: e se poi il pensionato muore prima di aver saldato il suo debito? Niente paura, eventualmente lo Stato potrebbe con tranquillità rivalersi sul figlio-contribuente. Provocazioni a parte, rimane da capire quanto forte può essere questo incentivo all’uscita, ma difficilmente potrebbe smuovere grandi numeri o creare significativi spazi. Non sono comunque misure su cui fare troppo affidamento quando si affronta il tema della disoccupazione giovanile e delle sue possibili soluzioni, che evidentemente passano per ben altre strade.
Sarà interessante capire nei prossimi mesi come si svilupperà il dibattito, ma soprattutto quali saranno le misure effettivamente portate avanti e come verranno poi declinate e implementate, considerando che il tutto dovrà mediare esigenze differenti, a volte contrapposte: equilibrio inter-generazionale, equità e giustizia sociale, rispetto degli impegni presi con l’Europa, sostenibilità economica oltre che, ahimè, interessi elettorali che i partiti non rinunceranno certo a perseguire.