«È giusto consentire ai lavoratori di andare in pensione in modo flessibile, ma anticipare di soli due anni rispetto ai 67 previsti dalla riforma Fornero non è sufficiente. Molto meglio prevedere una forbice che va dai 62 ai 70 anni, anche per venire incontro alle esigenze del tutto diverse di un operaio e di un professore universitario». È il commento di Cesare Damiano, ex ministro del Welfare e presidente della commissione Lavoro alla Camera dei deputati, dopo che Enrico Giovannini ha annunciato che il governo sta preparando una bozza per rendere possibile l’anticipo dell’età pensionabile, anche per venire incontro agli esodati. Il ministro ha spiegato: “Stiamo pensando a uno strumento flessibile in funzione della condizione soggettiva del lavoratore”.



Che cosa ne pensa della proposta del ministro Giovannini?

Era ora che il governo si preoccupasse di questo sistema pensionistico irrigidito dalla “riforma Fornero”. Mandare tutti in pensione a 67 anni porta a guasti inenarrabili. Il primo è che, da un punto di vista sociale, ha prodotto i cosiddetti esodati. Il secondo è che blocca le assunzioni per i giovani. Il terzo è che produce effetti di paura nelle persone che a 60 anni temono di perdere il loro lavoro.



E quindi?

Persone che diventano iper-risparmiatrici non consumano e non favoriscono la crescita di questo Paese. Sono contento che si cominci a discutere di una proposta che noi avevamo già avanzato nella scorsa legislatura, e il cui scopo era quello di introdurre un criterio di flessibilità nell’uscita dal mondo del lavoro.

Quanto può venire a costare allo Stato questa riforma?

Tutto costa, anche questa correzione, consideri che grazie alla riforma Fornero dalle pensioni è previsto un risparmio di 300 miliardi di euro nel periodo che va dal 2020 al 2060.

Quali aspetti problematici presenta la proposta del ministro Giovannini?



La proposta del ministro Giovannini presenta tre problemi. Il primo è che due anni di anticipo della pensione, rispetto ai 67 previsti dalla riforma Fornero, non sono sufficienti. Il secondo problema è capire se la proposta di Giovannini sia rivolta a tutti o solo ai pensionati di fascia medio-bassa. Il terzo problema è il fatto di chiamare le aziende a versare una quota per i lavoratori che si ritirano prima dal lavoro. Non tutte le imprese infatti possono permettersi di pagare.

Quali sono quindi le sue proposte alternative?

Insieme al sottosegretario all’Economia, Pier Paolo Baretta, ho già presentato una proposta di legge in materia. L’obiettivo è quello di consentire ai lavoratori che abbiano maturato 35 anni di contributi di poter andare in pensione nell’età compresa tra i 62 e i 70 anni. Chi lo fa a 62 anni ovviamente “paga pegno”, cioè secondo la nostra proposta accetta una decurtazione della pensione pari all’8%. In questo modo noi risolveremmo strutturalmente molti problemi e riapriremmo l’accesso alla pensione a tutti i lavoratori esodati, prosecutori volontari, cessati e licenziati. Daremmo cioè una risposta a tutte le situazioni che stiamo rincorrendo senza arrivare mai a una conclusione definitiva, nonostante il fatto che 160mila esodati sono già stati salvaguardati.

 

Di quali condizioni oggettive occorre tenere conto rispetto alla flessibilità in uscita?

Occorre tenere conto del fatto che una cosa è essere addetti alla catena di montaggio, un’altra è fare il professore universitario. I lavoratori che faticano vogliono andare in pensione prima, quelli che non faticano, almeno in senso fisico, vogliono ritirarsi più tardi. Quindi per gli uni è più connaturata la soglia dei 62 anni, per gli altri quella dei 70.

 

(Pietro Vernizzi)

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