La più sintetica ed efficace descrizione dell’andamento del contratto di apprendistato post Legge Fornero è stata recentemente scritta dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali nel suo rapporto di monitoraggio “Il primo anno di applicazione della legge 92/2012”. Scrivono i ricercatori ministeriali: «L’andamento delle attivazioni con contratti di apprendistato tra il primo trimestre 2012 e il secondo trimestre 2013 conferma le criticità emerse dall’analisi dello stock, mostrando una significativa contrazione dopo l’entrata in vigore della riforma. […] appare utile sottolineare che le variazioni tendenziali delle attivazioni calano, seppure in misura diversa, in tutte le Regioni a eccezione della Provincia Autonoma di Bolzano, nota per lo sviluppo di un vero e proprio modello duale, dove si registra una crescita del 6% rispetto al secondo trimestre del 2012. I contratti di apprendistato attivati nel secondo trimestre del 2013 sono solo il 2,7% dei 2,7 milioni di contratti totali, una quota in diminuzione di 0,2 punti percentuali rispetto allo stesso periodo del 2012».



Nonostante la riforma del 2011, il successivo intervento con la Legge Fornero, l’ormai diffuso ritornello mediatico sull’apprendistato come principale canale di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, tale contratto continua ad andare male. Certo il blocco generalizzato della domanda di lavoro è un fattore determinante. Parimenti l’accertata debolezza della formazione obbligatoria che i giovani ricevono fino alla scuola secondaria superiore. Ciò non toglie che i dati continuino a essere molto preoccupanti.



Gli stessi dati che forse hanno convinto Matteo Renzi e i suoi tecnici a non citare neanche l’apprendistato tra i punti chiave del Jobs Act presentato (ancora in soli titoletti) dal Pd. Anzi, in un certo senso a superarlo con la proposta di un “contratto di inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti” ancora tutto da dettagliare, ma che difficilmente non sarebbe alternativo all’apprendistato, avendone i vantaggi economici (gli sgravi tipici dell’ex contratto di inserimento, che però si scontreranno con la normativa europea che li permette per il solo apprendistato) e normativi (recedibilità), senza però la “grana” della formazione e, quindi, una maggiore flessibilità nella gestione burocratico/certificatoria. Anche la controproposta sul lavoro di Scelta Civica non si cura dell’apprendistato, sostituto dal contratto unico ichiniano, detassato, decontribuito e senza articolo 18.



All’apprendistato è invece dedicato l’articolo più lungo del disegno di legge Alfano-Sacconi, che, anticipando il ragionamento sul rapporto sistema duale e diffusione dell’apprendistato svolto dai tecnici del Ministero nel loro monitoraggio, incoraggia fortemente il cosiddetto primo livello, ovvero l’apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale, che sarebbe permesso già dai 14 anni, con una sostanziosa riduzione del salario per via legislativa. Lo stesso disegno di legge si propone di semplificare l’apprendistato professionalizzante per quanto concerne la certificazione della formazione, tolta alle procedure pubbliche per essere affidata alle Parti sociali.

Si torna, quindi, a parlare di riforma dell’apprendistato, se non addirittura della sua abrogazione. Si tratterebbe dell’ennesimo intervento dell’ultimo triennio e, quindi, di nuova incertezza per operatori, imprese e lavoratori. Resta da chiedersi se i problemi dell’apprendistato, le ragioni del mancato decollo che l’hanno reso l’eterna promessa incompiuta del nostro diritto del lavoro, siano da ricercarsi innanzitutto nei meccanismi normativi. Questo è l’approccio tradizionale di ogni proposta di riforma: semplificare le regole, abbassare il costo del lavoro.

Certamente anche questi fattori incidono sula debolezza dell’istituto. Il vero problema pare però un altro: il valore che imprese e lavoratori assegnano alla formazione. Paradossalmente, per molti il limite del contratto di apprendistato è la sua caratteristica distintiva: la formazione professionalizzante appunto. È chiaro che se non si individua nel costante aggiornamento di conoscenze e competenze la prima arma della persona contro l’incertezza di un mercato del lavoro che sarà sempre più discontinuo e variabile, a nulla serve sacrificare una (piccola, in Italia!) parte dello stipendio per pagarla, questa formazione.

Se è maggiore il timore delle procedure di certificazione della formazione effettuata rispetto al miglioramento del cosiddetto capitale umano derivante da processi formativi correttamente strutturati e seriamente svolti, certamente meglio cercare di tornare al vecchio contratto di inserimento, ovvero una semplice forma di ingresso in impresa fiscalmente sostenuta, senza vicoli formativi.

Proprio questo pare essere il disegno contenuto nel Jobs Act di Renzi. Un giudizio più completo sarà possibile solo dopo la lettura del dettaglio della proposta del Pd. Certo in questo ambito pare essere un timido progetto al ribasso.

@EMassagli

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