Matteo Renzi e il suo Job Act hanno portato al centro del dibattito politico le misure per intervenire in particolare sul problema occupazionale giovanile. Da questo punto di vista, il 2013 sarà ricordato come l’anno nero (41,2% ultima rilevazione Istat circa i livelli della disoccupazione della fascia 15-24 anni), anche se il trend si mantiene su livelli alti ormai da qualche anno. Ricordiamo che si tratta dei livelli più alti sia dall’inizio delle serie storiche mensili (gennaio 2004), sia delle trimestrali (primo trimestre 1977). Anche per quanto riguarda il lavoro atipico, che non è in toto precario ma lo è per molti aspetti, si sono registrati forti cali occupazionali.
È tuttavia dagli anni ‘80 che in Italia esiste un serio problema occupazionale giovanile, ma evidentemente i più noti rotocalchi si sono accorti di una patologia strutturale del mercato del lavoro solo in questi anni di grande recessione. In particolare, in merito al problema del lavoro flessibile, abbiamo chiesto a Ivan Guizzardi, Segretario Generale della Felsa-Cisl, quali sono le priorità da affrontare e come il welfare e il sindacato devono rispondere oggi alle nuove forme di lavoro, la cui grande maggioranza, oltre a essere precaria e mal retribuita, spesso non beneficia nemmeno di forme di sostegno e di accompagnamento al lavoro.
Come vede la situazione occupazionale giovanile in relazione alle nuove forme di lavoro introdotte ormai da oltre 15 anni?
La società si è completamente trasformata. Non esiste più la grande fabbrica, oggi viviamo prevalentemente in un’economia di servizi. Gli strumenti di flessibilità introdotti si sono tuttavia rivelati utili per lo più per abbattere i costi. Questo però a lungo andare finisce con incentivare e alimentare lavoro precario. La flessibilità quando è buona deve essere retribuita per ciò che vale e non meno delle forme di lavoro “tipiche”. La flessibilità va pagata maggiormente perché il lavoratore deve essere nella condizione di investire su se stesso. In questo caso la formazione ha molto valore.
Al di là dei costi del lavoro flessibile, non mancano sostegni strutturali alla flessibilità senza i quali si apre la porta alla precarietà?
Sicuramente oltre agli strumenti di flessibilità è ora di introdurre strumenti di accompagnamento al lavoro flessibile. Al fianco di forme di politiche passive e di sostegno al reddito, come la cassa integrazione, vanno legate forme di politiche attive, come la formazione e la riqualificazione. In questo senso, anche il sindacato deve riposizionarsi rispetto alle politiche attive. Il sussidio prolungato finisce con deresponsabilizzare e rendere problematico il rientro nel mercato del lavoro.
Fino a che punto il sindacato ha dato risposte alle esigenze di rappresentanza di queste nuove forme di lavoro?
Certamente c’è un problema. È vero anche che nuove forme di rappresentanza del lavoro atipico oggi esistono, ma è innegabile che la rappresentanza oggi debba essere ripensata, soprattutto dal punto di vista culturale. Dal punto di vista organizzativo, ciò è ancora sproporzionato, abbiamo bisogno di più servizi. Ma questo implica anche che bisogna pensare a forme e ambiti aggregativi diversi, oggi va ripensato il modello.
In che senso?
Più servizi, più aggregazione legata ai territori e meno al posto di lavoro, aggregazione che può partire dal lavoro ma che va oltre il lavoro. È qui che bisogna intervenire: è chiaro che il sindacato oggi paga ancora dazio a una logica aggregativa vecchia, che è ancora quella della grande fabbrica; anche se nell’esperienza sindacale del mondo agricolo e nel mondo edilizio, il sindacato ha saputo aggregare. Ma in questi ambiti la flessibilità era già insita.
Come aggregare in modo nuovo e diverso?
In poche parole, bisogna costruire un modello di welfare non più legato al posto di lavoro. Oggi non si può più legare il welfare al posto di lavoro, il welfare deve andare oltre il posto: va legato a delle modalità che travalichino il posto, legate alla professionalità e alla territorialità. Questo è il sistema che la Cisl sta tentando di costruire.
Quali sono le priorità su cui intervenire per dare risposte al dramma occupazionale giovanile?
Quando usciremo dalla crisi, quando l’economia e la produzione ripartiranno, a questo non corrisponderà una crescita dell’occupazione. Quindi è difficile avere ricette, ma io vedo almeno tre punti su cui dobbiamo lavorare: in primo luogo, il sistema educativo-formativo deve dare risposte più adeguate alle esigenze produttive, sia per quanto riguarda gli alti profili, sia per quanto riguarda le figure più professionali.
E poi?
In secondo luogo, oggi c’è una serie di richieste dal punto di vista del lavoro autonomo e dell’auto-imprenditoria, di figure anche dell’artigianato, che vengono difficilmente occupate. Questo perché c’è un’aspettativa dei giovani e della famiglia che non corrisponde alle richieste del mercato. Ciò esprime una certa rigidità culturale, ma allo stesso tempo una forte esigenza di riqualificazione e di ricollocamento. Come mai un giovane è disponibile a fare il barista a Londra o in Australia e non lo fa a Milano? Questo è un serio problema educativo, che riguarda la dignità del lavoro: non tutti nella vita devono fare l’astronauta.
E in ultimo?
In terzo luogo, le forme di flessibilità di lavoro sono forme che possono più o meno favorire l’occupazione. Oggi possiamo affermare che non è che mancano gli strumenti di flessibilità, sia negli istituti contrattuali ma anche attraverso la contrattazione. Certo è che in molti casi la flessibilità è stata intesa e applicata come forma di lavoro sottopagato. Dare risposte al lavoro oggi significa tener presente tutti e tre questi fattori.
In che modo secondo lei potremo sfruttare al meglio la Garanzia Europea e gli importanti fondi per l’Italia?
L’occupazione non è il prodotto dei grandi numeri, è il prodotto della qualità. La prima cosa che va fatta oggi è un’operazione di carattere culturale: oggi anche chi ha un’opportunità rincorre un modello che non esiste più. La precarietà è anche questa.
(Giuseppe Sabella)
In collaborazione con www.think-in.it