Fiat, Bridgestone e ora Electrolux sono casi che nella sostanza fanno esplodere in Italia quelle contraddizioni che non sono nella dialettica capitale-lavoro, e sbaglia chi ancora una volta cade nell’errore di attaccare l’impresa quando ciò che in questo Paese non è più sostenibile sono invece le condizioni di base per fare impresa: chiaro che aziende strutturate a questo punto preferiscano delocalizzare, oppure propongano a loro volta condizioni di lavoro ai sindacati che, i medesimi, faticano ad accettare.



Da qui mobilitazioni di lavoratori contro l’impresa, ma poche voci fuori dal coro si accorgono e affermano che in realtà bisognerebbe una volta per tutte mettere a tema sviluppo economico e politiche economico-industriali necessarie non solo per non far scappare all’estero le imprese, ma anche e soprattutto per attrarre nuovi investitori. A oggi, infatti, le multinazionali si guardano bene dall’investire in Italia. Non parliamo poi della necessità di rilanciare la domanda, perché si continua a parlare di investimenti dando per scontato che a un aumento della produzione corrisponda automaticamente una crescita della domanda. Solo pochi illuminati ricordano di questi tempi che la grande crisi del ‘29 è stata una crisi di sovrapproduzione, che non ha nulla a che vedere con la recente crisi economico-finanziaria.



Ma, entrando nel merito del caso Electrolux, due giorni fa i lavoratori degli stabilimenti italiani hanno scioperato davanti ai cancelli dell’azienda contro l’annunciato piano industriale che prevede una riduzione del loro stipendio. “Siamo come la Fiat di qualche anno fa, per lavorare bisogna rinunciare ai diritti conquistati in anni di lotta”. Questo ciò che dicono i lavoratori in presidio.

Cosa è successo è cosa nota: l’azienda dice di avere proposto una riduzione di 3 euro all’ora. In termini di salario netto questo equivale a circa l’8% di riduzione, ovvero a meno 130 euro mese. I sindacati rispondono in modo compatto che Electrolux ha proposto un dimezzamento dei salari (non l’8%, ma il 50%) oggi in media di 1.400 euro (quindi parliamo di 700 euro al mese), la riduzione dell’80% dei 2.700 euro di premio aziendale, il blocco dei pagamenti delle festività, taglio del 50% di pause e permessi sindacali, stop agli scatti di anzianità.



La famiglia Wallemberg, svedese, che guida Electrolux, dice che per essere competitivi sui mercati globali bisogna portare la Polonia in Italia (dove il costo del lavoro è attorno ai 6 euro l’ora contro i nostri 24). Per riuscirvi ha proposto, anche, il congelamento per un triennio degli incrementi del Contratto collettivo nazionale di lavoro e degli scatti di anzianità.

Al di là di chi ha ragione e chi ha torto, è chiaro che il problema di fondo è di natura strutturale. Vero è che nel settore manifatturiero italiano, secondo la Cgia di Mestre, il costo orario del lavoro è pari a 34,18 dollari, contro i 45,79 della Germania e i 39,81 della Francia. Tra i big dell’Unione europea solo la Gran Bretagna presenta un costo orario inferiore al nostro: 31,23 dollari. Certo, rispetto ai paesi dell’ex blocco sovietico, il differenziale è molto elevato, ma nei confronti dei paesi nostri omologhi il costo del lavoro italiano non è eccessivamente elevato. Ma allora dove stanno i problemi da questo punto di vista?

Rispetto agli indici di produttività ed efficienza, il World Economic Forum ci dice che siamo in 137ma posizione. È cosa nota, a riguardo, che abbiamo i tassi di assenteismo più alti d’Europa. Considerando inoltre gli indicatori della competitività, sempre secondo il World Economic Forum di Ginevra (2014), siamo al 49° posto. Al primo posto della classifica si trova la Svizzera seguita da Singapore. Appena dietro la Finlandia e la Germania. A seguire ci sono gli Stati Uniti, davanti alla Svezia e a Hong Kong.

Se poi consideriamo i costi dell’energia elettrica, le medie e grandi imprese italiane pagano l’energia il 28,7% in più della media dei paesi dell’area dell’euro. Se in Italia il costo per ogni 1.000 Kwh è di 113,6 euro, in Francia è quasi la metà: 66 euro. Rispetto ai costi dell’energia, l’accordo che la Bridgestone ha siglato ai primi di ottobre con il ministero dello Sviluppo Economico facilitava l’azienda nella riduzione e nel contenimento della spesa energetica: ciò ha costituito un precedente importante, ma non ha portato al centro dell’agenda politica il noto bisogno di un vero piano energetico. Come, del resto, al centro dell’agenda politica continuano a essere esclusi sviluppo economico e politica industriale.

 

In collaborazione con www.think-in.it