Credo che tutti coloro che appartengono alla classe dirigente del Paese, intesa in senso allargato e comprendendo in tale dizione (e responsabilità) sia chi è direttamente chiamato, sia che si trovi in ruoli e posizioni “de facto” nell’indicare percorsi e traiettorie per una parte di cittadini, non possa fare a meno di confrontarsi con quanto ogni anno il Censis indica, nel suo articolato e complesso Rapporto annuale. Infatti, il documento si configura sempre più come una fotografia sullo “Stato dell’Unione”, sempre meno evocativa dei fattori di forza del passato (piccolo è bello, ecc.), sempre più descrittiva delle aree di incertezza e di fatica delle diverse fasce di popolazione.
Anche questa edizione del Rapporto, troppo spesso dimenticato nella ripresa del nuovo anno, segnala tra le fatiche maggiori la questione del lavoro, sia come fattore in profonda trasformazione, sia come minore disponibilità complessivamente intesa. E a occhi attenti, quali quelli di molti lettori di questo giornale (anche attraverso i commenti “disincantati” ai vari articoli), non sfugge che essa è la quaestio principale da cui tutto discende: reddito, cittadinanza civile, titolarità di welfare nelle diverse forme e altro ancora.
Ma le classi dirigenti non possono cavarsela solo “denunciando, segnalando, richiedendo o rivendicando da terzi, gestendo una rendita di posizione, in altre parole rinviando responsabilità proprie”: le classi dirigenti devono indicare percorsi possibili (anche attraverso il proprio esempio personale e collettivo), far emergere idee e progetti perseguibili, determinare con il “potere” atti e azioni di sostegno allo sviluppo del Paese, anche attraverso meccanismi impositivi, capaci di abbattere barriere burocratiche che determinano immobilismo e deresponsabilizzazione (altro che sussidiarietà….).
Consiglio a tutti la lettura del Rapporto (di cui non mi sento autorizzato a farne un sunto), non fosse altro che per attingere qualche ispirazione per il proprio campo d’azione, compresi i corpi intermedi, a cui lo stesso Presidente del Censis, prof. De Rita, ha dedicato un appassionato intervento di difesa sul quotidiano che va per la maggiore e a cui è stata recentemente venduta la prestigiosa sede milanese.
E in particolare i diversi sindacati sono chiamati anch’essi a un salto di qualità nella rappresentanza sociale, di fronte all’inesorabile ridimensionamento organizzativo e politico in atto: è in corso una pesante riduzione dei tassi di sindacalizzazione, anche per fatti oggettivi quali il restringimento della base occupazionale, la crescita dell’inoccupazione, il blocco contrattuale nella Pubblica amministrazione (oltre alla riduzione degli addetti), accanto alla minore disponibilità dello Stato a finanziare i servizi di assistenza quali, ad esempio, i Patronati sociali e previdenziali e i Centri di assistenza fiscale. Tutti fattori che non aiutano i sindacati, anzi ne minano l’incidenza della propria iniziativa.
Invece avremmo bisogno di sindacati meno preoccupati di giocare un ruolo politico ma più orientati a incrementare la propria rappresentanza sociale, intesa come capacità di realizzare un contributo decisivo sul fronte delle tutele del lavoro. Infatti, anziché partecipare a questo gioco dialettico sulle regole formali del lavoro (per esempio, il contratto unico e di nuovo questo “benedetto” articolo 18), occorrerebbe contribuire maggiormente a creare condizioni normative e contrattuali che aiutino il lavoro.
Infatti, si ha l’impressione che spesso l’azione dei sindacati sia fortemente contradditoria: da una parte troviamo arroccamenti incomprensibili e anti-storici che, per non perdere iscritti nella Pubblica amministrazione e in alcuni settori dei servizi pubblici (i trasporti), arrivano a talune manifestazioni che colpiscono solo i cittadini inermi. Dall’altra abbiamo esempi virtuosi nella contrattazione quali talune solide alleanze tra imprese e lavoratori per promuovere il capitale sociale presente, quali prodotti e servizi innovativi e di qualità, fondati sulla conoscenza in capo al capitale umanorappresentato dalle risorse umane impiegate.
Nelle ultime settimane sono stati rinnovati (nel silenzio dei media) alcuni importanti contratti di lavoro che riguardano centinaia di migliaia di addetti, quali quelli per i lavoratori in somministrazione (gli ex interinali), il settore Tessile e Abbigliamento, Calzaturieri, Occhialerie (quelli della famosa Luxottica), i Giocattoli, Legno e Arredamento e l’elenco potrebbe continuare, accanto ad altri settori che invece sono in difficoltà nei rinnovi (Trasporti, Gomma e Plastica, Servizi di Acqua e Gas, ad esempio).
Nei contratti rinnovati ci si è limitati a rivalutare le retribuzioni con incrementi minimi (vista la difficoltà a scaricare sui prezzi finali i maggiori costi) e si sono introdotte molteplici forme di incremento delle flessibilità organizzative sugli orari di lavoro (un più forte utilizzo del part-time, ad esempio), una maggiore disponibilità complessiva delle organizzazioni del lavoro nell’utilizzo degli impianti, una serie di misure utili a sostenere gli incrementi di produttività, forti incentivi all’aggiornamento e alla formazione dei lavoratori.
Nessun automatismo è consentito far discendere in termini di aumento dell’occupazione, ma una serie di premesse e di condizioni, di certezze applicative rappresentano una modalità per contribuire a sostenere la produttività nelle imprese stesse, condizione per vendere prodotti e servizi, quale unico ed esclusivo modo per difendere il lavoro e tutelare i lavoratori. Queste sono le strade e i percorsi che i capi delle confederazioni sindacali devono sostenere al loro interno, anche attraverso scelte coerenti e meno contraddittorie.
Il Censis ci dice che ciascuno deve fare la propria parte, dal Governo centrale per le grandi opere pubbliche e le infrastrutture all’ultimo Comune d’Italia per le manutenzioni e la difesa del territorio, dalla grande impresa alle piccole nicchie di artigianato e commercio, ad esempio anche con l’introduzione di una cultura industriale in talune aree dei servizi tipicamente italiani, quali il turismo e i beni culturali.
Tutto ciò deve essere sostenuto con ampie condivisioni collettive da parte delle diverse rappresentanze della politica e delle istituzioni, dalle dirigenze e dagli addetti alle amministrazioni pubbliche e parapubbliche: anche sindacati e rappresentanze dei diversi datori di lavoro facciano il loro mestiere, consapevoli che abbiamo bisogno di meno dibattiti sulle regole e più incentivi verso comportamenti virtuosi e maggiormente orientati al benessere comune.
Gli incentivi economico-finanziari sono necessari, per non scadere solo nel “volontarismo morale”, così come sono necessari strumenti e atti più semplici e meno pesanti sul piano degli adempimenti; ma senza una ripresa progressiva di comuni e condivise responsabilità, nei propri e distinti campi di azione, la strada è maggiormente impervia per tutti.