«Con la Legge di stabilità si è persa l’occasione di intervenire sulla previdenza, dando una risposta a quanti si trovano nella condizione disperata di non avere più un lavoro e non poter andare ancora in pensione. Le proposte sul tavolo erano almeno quattro e nessuna è stata presa in considerazione». Ad affermarlo è Cesare Damiano, onorevole del Pd, presidente della XI Commissione Lavoro pubblico e privato della Camera dei Deputati ed ex ministro del Lavoro e della previdenza sociale.
Che cosa manca secondo lei nella Legge di stabilità?
Contrariamente a quanto era stato detto, la manovra non contempla né l’estensione degli 80 euro ai pensionati, né tantomeno l’introduzione di una flessibilità del sistema previdenziale alla quale abbiamo guardato sempre con grande interesse. È quindi evidente che due questioni rilevanti legate al sistema pensionistico non sono prese in considerazione, e da questo punto di vista secondo me c’è una carenza.
La Legge di stabilità era il momento più opportuno per intervenire sulla flessibilità delle pensioni?
Il ministro Poletti aveva parlato di un intervento nella Legge di stabilità. Se il ministro aveva giudicato che ciò fosse necessario nella manovra, mi domando come mai questo non sia avvenuto.
Secondo lei, che cosa è successo?
Probabilmente c’è stato un problema di risorse, la solita coperta molto corta che non riguarda solo le pensioni. Per quanto riguarda in particolare gli ammortizzatori sociali dai miei calcoli non risulta chiaro se siamo di fronte a una risorsa aggiuntiva oppure se si utilizza l’esistente, vale a dire un pezzo delle risorse messe quest’anno per gli ammortizzatori in deroga. Lo ritengo un problema abbastanza rilevante.
In che modo occorreva intervenire nella Legge di stabilità sulla flessibilità delle pensioni?
Le proposte sul tavolo erano almeno quattro e nessuna è stata presa in considerazione. La prima riguardava la possibilità di anticipare l’andata in pensione, che era la proposta dell’ex ministro Giovannini. In sostanza si trattava di introdurre uno scivolo di un paio d’anni per quanti erano nella condizione disperata di non avere più un lavoro e non poter andare ancora in pensione.
La sua proposta invece qual era?
La proposta che avevo avanzato personalmente era la cosiddetta “quota 100” per tutti, che prevedeva che ci si potesse ritirare dal lavoro dopo 38 anni di contributi e 62 anni di età, oppure 37 e 63 e così via.
Quanto costerebbe allo Stato la cosiddetta “quota 100”?
Non c’è dubbio che comporterebbe un costo. Io però non faccio più i conti, li lascio fare alla Ragioneria dello Stato. Se io propongo “quota 100” con una copertura sulla base dei giochi online la mia idea viene bocciata, mentre se la propone il Governo viene accolta. E lo stesso accade se la copertura proposta riguarda i proventi dalla lotta all’evasione fiscale. Come si vede gli indirizzi della Ragioneria sono mutevoli.
E poi c’erano anche due soluzioni alternative…
Esattamente. La prima era quella della flessibilità, vale a dire che chi ha 35 anni di contributi può accedere alla pensione a partire dai 62 anni. Inoltre c’era l’anticipo pensionistico, che a me non è mai piaciuto, ma che avrebbe consentito alle persone che lo desideravano di avere un anticipo della futura pensione.
Anche i tagli alla sanità delle Regioni vadano a colpire soprattutto i pensionati?
Su questo si sono già espressi i governatori, e io mi associo alla loro battaglia.
Infine, nei bilanci dell’Inps ci dovrebbe essere maggiore chiarezza nella distinzione tra prestazioni previdenziali e assistenziali?
Questa mancanza di una distinzione tra previdenza e assistenza è una questione antica. In Italia si pagano contributi elevati e le prestazioni sono in equilibrio, anche perché abbiamo attuato riforme rilevanti. È il mescolamento tra previdenza e assistenza che può essere invece problematico.
(Pietro Vernizzi)