Sabato a Roma la piazza era piena, soprattutto di lavoratori di media età. Hanno sfilato per ore, secondo consuetudine e metodico sistema. Eppure quella piazza, senza volerla neppure affiancare alla nevrotica tre giorni della Leopolda, ha lasciato in tutti noi, sindacalisti e osservatori, un fondo di amarezza in bocca. Perché l’impressione che ci ha dato è di essere arrivata troppo tardi per le richieste che essa ha espresso e troppo presto per quel che essa voleva davvero essere.



La manifestazione della Cgil, infatti, si poneva molti obiettivi, in parte condivisibili ma in grandissima maggioranza frutto di un’analisi della realtà che appare ancorata a vecchi schemi, letture non démodées (essere fuori moda può anche essere un vantaggio oltre che non per forza vuol dire aver sbagliato analisi) ma proprio disancorate da quella realtà concreta che pure tutti i sindacalisti della Cgil conoscono.



Tale dicotomia non è frutto di una dissociazione politica, quanto di un problema di fondo, genetico: chiedendo la conservazione di quel che essa chiama diritti, la piazza in realtà ha chiesto solo un nuovo Governo, un diverso Premier o una diversa linea politica. Troppo tardi per i contenuti dunque, il mondo ormai va da un’altra parte, troppo presto invece sulla prossima campagna elettorale. Colpisce, infatti, questa sorta di doppio binario che ormai il sindacato di Di Vittorio e Lama ha imboccato da quando, quasi vent’anni fa, Sergio Cofferati lo spinse, per ragioni personalissime, a sinistra.



Trattativista a oltranza (spesso pure troppo) nelle aziende dove ha la maggioranza dei consensi, ma durissimo laddove al tavolo siedono anche altri soggetti. Si mostra indisponibile rispetto a questo (come ai precedenti) Governo, ma sa benissimo che ciò che serve alle aziende, dove pure esso è presente, non è quel che ha chiesto attraverso gli slogan urlati sabato. È ben cosciente, cioè, che la soluzione dei problemi che i suoi funzionari affrontano ogni giorno non si nasconde nelle pieghe di un passato glorioso fin che si vuole ma pur sempre passato. Invece però di prendere atto di questa realtà, conosciuta e in larga parte condivisa dal suo gruppo dirigente, e di desumerne con lucida coscienza una linea politica nuova e più produttiva, come preda di un riflesso condizionato, la Cgil si rinchiude su se stessa e si rifugia in scelte che, pur rispettabili e lecite che siano, non risultano però meno illogiche e improduttive.

Non a caso dopo la manifestazione al sabato (una intuizione cislina tanto criticata dal sindacato della Camusso fino a pochi mesi fa…) arriva la promessa dello sciopero generale. Si tratta in apparenza di un tipico schema sindacale: alzare il livello dello scontro prima di proporre una soluzione al problema. Ma la sfilata, imponente, seria, rispettabile, ha dato l’impressione di mancare proprio di una via d’uscita, di non sapere bene quale sia la mediazione che dovrebbe seguire a un atto di forza. Se, infatti, il punto di caduta è che “nulla cambi” per quanto attiene al lavoro, è una richiesta perdente in partenza. Perché significa lasciare la materia non nelle mani del Governo (che già sarebbe di per sé preoccupante), ma, peggio, affidarla alle mani, spesso ideologicamente orientate quando non semplicemente contraddittorie, della magistratura. Più che i diritti oggi vanno contrattate le tutele: i diritti fondamentali sono garantiti dalla Costituzione, le tutele da una paziente opera di discussione e di mediazione che deve avvenire tra le parti.

La Camusso questo lo sa, ma ha voluto comunque ingaggiare con Renzi una furibonda “lotta per i diritti”, in ciò rispondendo con un riflesso pavloviano alle provocazioni del Premier e alla veemente, ma ideologica e perdente, reazione della Fiom. La segretaria sembra così aver chiuso di nuovo la Cgil nella morsa formata, da un lato, dalla speranza di un ribaltone negli equilibri di potere interni al Pd, e, dall’altro, da una vana attesa che il Governo possa modificare la propria linea. Ma pavloviano è anche il riflesso condizionato che vede la maggioranza della Cgil alla fine cedere alla minoranza interna a scapito dei rapporti unitari salvo poi ancora dividersi al Congresso successivo su mozioni contrapposte. 

Sullo sfondo, intanto, rimangono inalterati i problemi del mondo del lavoro e dell’economia italiana: un costo dell’energia elevatissimo, una magistratura lenta e sovente incoerente, infrastrutture inadeguate, finanziamenti europei non spesi, un’imprenditoria che vede in Renzi non un riformista ma una sorta di Tea Party all’amatriciana (o meglio “alla Ribollita”) e che pensa di poter approfittare della situazione per rilanciare le imprese non attraverso veri investimenti e innovative capacità manageriali, ma portando in Europa le condizioni di lavoro vigenti in Cina o in Russia (vedi le dichiarazioni del principale finanziatore della corrente renziana).

L’Italia, secondo costume, si sta insomma, ancora una volta, spaccando in due fazioni: ieri guelfi contro ghibellini, Coppi contro Bartali, Prodi contro Berlusconi; oggi Renzi contro Camusso/Landini. E intanto il buon senso, quell’atteggiamento che viene dettato dal sano realismo di cui vive la parte più profonda del nostro popolo e che ci ha consentito di crescere e svilupparci, resta intatto tra le risorse inutilizzate. Eppure quello sarebbe il nostro vero petrolio!

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