Per dare una spiegazione sintetica del perché è necessario intervenire sull’articolo 18, il Presidente del Consiglio Renzi ha insistito sul richiamare alcuni punti generali. In primo luogo, ha detto che non si può lasciare ai giudici la decisione di come rispondere a eventuali licenziamenti non discriminatori. Ha poi richiamato la necessità di superare il dualismo delle tutele per estendere a tutti i lavoratori una rete di servizi di sostegno senza distinzione fra dimensione di impresa o tipologia contrattuale. Contro queste prese di posizione, come noto, i sindacati e dirigenti della minoranza Pd, oltre a ex comunisti di varia appartenenza, hanno aperto una forte polemica sostenendo essere posizioni non di sinistra e addirittura antisindacali.



Ormai il dibattito politico è apparentemente fatto solo di slogan appiattiti sulla quotidianità. Temo che invece i giovani dirigenti del Pd stiano dando una lezione storica al vecchio gruppo dirigente in via di auto-rottamazione. Siccome il futuro è fatto di capacità nel fare valere le lezioni del passato bisogna ricordare che le posizioni espresse da Renzi erano già state avanzate nel dibattito sul mercato del lavoro del nostro Paese proprio come base per avviare una fase di riforme ed erano posizioni condivise dal Pci e da tutti i sindacati.



Dobbiamo tornare indietro con la memoria. Nel 1983 il Cnel prepara un documento di valutazione della situazione sindacale, contrattuale e sui principali problemi del lavoro, visto che ci si avvia verso i 15 anni di applicazione dello Statuto dei lavoratori. A preparare le bozze del documento fu il prof. Gino Giugni che condivideva, con altri, l’elaborazione dello Statuto dei lavoratori stesso. Per i sindacati, Cgil, Cisl e Uil, parteciparono alla discussione e poi all’approvazione del testo Luciano Lama, Franco Marini e Giorgio Benvenuto (ricordo a margine che sono stati non solo importanti dirigenti sindacali delle loro organizzazioni, ma sono attivi ispiratori dell’attuale Pd).



Le posizioni avanzate verso lo Statuto riguardavano in particolare due questioni. La rigidità in uscita posta dall’applicazione delle norme determinava una situazione squilibrata nel mercato del lavoro e profonde differenze contrattuali, soprattutto verso i giovani assunti. Inoltre, l’assegnare alla giustizia eventuali contenziosi sui licenziamenti faceva emergere un individualismo che privilegiava il posto di lavoro sulla concezione della partecipazione collettiva dei lavoratori alle scelte aziendali. Il documento fu poi approvato nel 1984 all’assemblea Cnel con il voto contrario di Confindustria.

Talvolta la storia si ripete prima in tragedia e poi in farsa. Davanti al dibattito attuale pare che le posizioni sindacali e di “sinistra” stiano in una riflessione che già molti anni fa era riscontrata da chi stava nella realtà del lavoro dell’epoca. Ricordo peraltro che il Pci si astenne sulla legge introduttiva dello Statuto dei lavoratori, proprio perché riteneva limitante per l’azione sindacale affidare i contenziosi ai giudici.

Il giustizialismo di questi anni non si è limitato a fare danni solo verso la necessità di riforma della procedura di giustizia, ma ha cancellato la memoria di elaborazioni che i riformisti avevano seminato nel corso della storia del Paese. Allora lo scontro sull’articolo 18 è si simbolico: indica la possibilità per la politica di tornare a esercitare la propria capacità di essere interprete della realtà e rimettere in moto il Paese. La storia si vendica di chi non vuole impararne la lezione.

Leggi anche

LICENZIAMENTI/ Il nuovo colpo al Jobs Act passa dall'indennità per vizi formaliJOBS ACT/ Il problema irrisolto dopo la "vittoria" della Cgil a StrasburgoJOBS ACT/ Il rischio di un'altra bocciatura della Corte Costituzionale