L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è oggi, come negli ultimi tempi, al centro del dibattito e delle dispute delle varie aree politiche per un’ennesima riforma del lavoro, quella del governo Renzi. Lo Statuto dei lavoratori, e cioè la legge del 20 maggio 1970, n. 300, contiene l’insieme delle norme «sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro». L’articolo 18 rientra nel “Titolo II – Della libertà sindacale” e disciplina i licenziamenti dei lavoratori che avvengono senza giusta causa. Lo stesso ha subito una sostanziale modifica nel 2012 con la cosiddetta riforma Fornero (L. 92/2012).



L’articolo 18 indica i diritti e i limiti per il lavoratore che viene licenziato in modo illegittimo e decide di impugnare giudizialmente (dopo un periodo di tempo che deve essere al massimo di 180 giorni) il provvedimento per ottenere la reintegra (ovvero il posto di lavoro) o essere risarcito del danno subito.

Per “illegittimità” di un licenziamento, lo Statuto dei lavoratori fa riferimento alla discriminazione, alla mancanza di una giusta causa o a quella di un giustificato motivo. Se il giudice dichiara l’annullamento del licenziamento ci sono per il datore di lavoro e il lavoratore licenziato diverse conseguenze che cambiano se il licenziamento è: discriminatorio, per giustificato motivo soggettivo o giusta causa (disciplinare), per motivi economici. Esaminiamo quindi le diverse fattispecie.



Il licenziamento discriminatorio

Il licenziamento discriminatorio, cioè il licenziamento lesivo dei diritti fondamentali della persona (come, ad esempio: licenziamento di lavoratore impegnato sindacalmente; licenziamento di lavoratore sieropositivo; licenziamento ideologico; licenziamento sulla base dell’aspetto fisico o dell’abbigliamento) e intimato senza che ricorra la giusta causa o il giustificato motivo, viene sempre considerato nullo (cioè come non fosse mai stato effettuato), indipendentemente dalla motivazione addotta, e comporta il diritto alla reintegra nel posto di lavoro nelle condizioni di pre-licenziamento. Al lavoratore deve essere dunque assicurato lo stesso trattamento economico e la stessa posizione che aveva prima.



Inoltre, oltre al reintegro, è previsto un risarcimento del danno subito che di norma è pari alle retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito se non fosse stato licenziato e copre quindi il periodo che va dal licenziamento all’effettivo ritorno sul posto di lavoro. Il datore di lavoro deve anche versare i contributi per la pensione per il periodo in cui il lavoratore risultava essere licenziato. In ogni caso la misura del risarcimento non può essere inferiore a cinque mensilità. Con la riforma Fornero questa tutela piena è stata estesa alle aziende indipendentemente dal numero dei dipendenti (prima erano un minimo di 15) e ai dirigenti.

Ottenuto il reintegro, il lavoratore ha comunque il diritto di non rientrare in azienda e di chiedere in cambio un’indennità sostitutiva. Questa possibilità prevista dall’articolo 18 è stata pensata per consentire al lavoratore di risolvere comunque il rapporto di lavoro, evitando di dover tornare in un ambiente lavorativo che potrebbe essere ostile, almeno da parte del suo datore. L’indennità deve essere pari a quindici mesi di retribuzione.

Il licenziamento disciplinare

Il licenziamento è disciplinare in tutti i casi in cui viene a suo mezzo sanzionata una inadempienza e/o una trasgressione del lavoratore e implica, per tale ragione, la previa osservanza delle garanzie procedimentali di irrogazione stabilite dall’art. 7, L. n. 300/1970. In particolare, il licenziamento disciplinare può essere intimato in presenza di una giusta causa (art. 2119 cod. civ.), vale a dire una condotta del lavoratore di tale gravità da non consentire la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro, o di un giustificato motivo soggettivo (art. 3, legge 604/1966), vale a dire un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore.

L’obbligatorietà della preventiva contestazione e il rispetto delle regole procedurali dell’art. 7 dello Statuto dei lavoratori costituiscono espressione di principi fondamentali di ogni sistema penale, e la regolamentazione del potere disciplinare del datore di lavoro è proprio quella tipica di un sistema penale. Le tutele previste dall’articolo 18 per questo tipo di licenziamento si applicano solo alle aziende che hanno almeno 15 dipendenti. Nel caso di un licenziamento disciplinare (per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa) il reintegro non è più automatico.

I regimi di tutela, introdotti dalla L. 92/2012, per questo tipo di licenziamento sono tre:

1- Reintegra e risarcimento attenuato (massimo 12 mensilità) – il fatto contestato non esiste oppure rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa: la sanzione consiste nella reintegra sul posto di lavoro, più un’indennità di valore massimo pari a 12 mensilità;

2- Solo tutela obbligatoria standard (da 12 a 24 mensilità) – non ricorrono gli estremi di giusta causa e giustificato motivo soggettivo: la sanzione consiste nel pagamento di un’indennità di valore massimo compreso tra le 12 mensilità e le 24 mensilità, senza la reintegra.

3- Solo tutela risarcitoria attenuata (da 6 a 12 mensilità) – vizi della procedura di cui all’articolo 7 dello Statuto: la sanzione consiste nel pagamento di un’indennità di valore massimo compreso tra le 6 e le 12 mensilità, senza la reintegra.

 

Il Licenziamento economico

Il licenziamento per motivi economici viene intimato per un giustificato motivo oggettivo e, cioè, per ragioni connesse all’andamento economico dell’impresa oppure al suo assetto organizzativo.
Le tutele previste dall’articolo 18 per questo tipo di licenziamento si applicano solo alle aziende che hanno almeno 15 dipendenti. Nel caso in cui il giudice accerti che il licenziamento è illegittimo perché non c’è un giustificato motivo oggettivo alla base (non c’è un’effettiva e provata situazione economica od organizzativa dell’azienda che lo giustifichi) il reintegro non è più automatico.

Come nel caso del licenziamento disciplinare, il reintegro può essere stabilito solo nel caso in cui il fatto produttivo od organizzativo addotto alla base del licenziamento è in modo manifesto “insussistente”; ad esempio: il datore di lavoro licenzia un lavoratore perché sostiene, per motivi economici, di dover sopprimere un posto di lavoro, ma assume un’altra persona per svolgere le stesse mansioni del lavoratore che ha licenziato. Anche in questo caso, la reintegrazione nel posto di lavoro viene accompagnata da un risarcimento pari a 12 mensilità al massimo.

Se invece il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è sì illegittimo, ma in modo non “manifesto”, il rapporto di lavoro è dichiarato definitivamente risolto con effetto dalla data del licenziamento e viene semplicemente stabilito il pagamento di un’indennità risarcitoria omnicomprensiva tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (come per il disciplinare).

Esaminata la situazione attuale, veniamo al dibattito in corso. Per il Premier Renzi, l’articolo 18 rappresenta “una mancanza di libertà per gli imprenditori”; quindi propone: abolizione dell’articolo 18 e via libera all’indennizzo esteso a tutti; ciò, sempre secondo il Premier, è necessario per contrastare il drastico fenomeno della disoccupazione. Ci si chiede: cura meravigliosa o ennesimo flop?

Il diritto al reintegro nel posto di lavoro (la tutela reale), nella proposta di riforma, sarebbe prevista soltanto in caso di licenziamento dovuto a motivi discriminatori o disciplinari, mentre non sarebbe più possibile in tutti gli altri casi (in particolar modo per i licenziamenti causati da motivazione economica, come ad esempio può essere una riorganizzazione aziendale).

L’abolizione dell’articolo 18 potrebbe configurarsi come illegittimità costituzionale? Renzi, a tale domanda, risponde così: “Il rispetto del diritto costituzionale non è nell’avere o no l’articolo 18, ma nell’avere lavoro. Se fosse l’articolo 18 il riferimento costituzionale allora perché per 44 anni c’è stata differenza tra aziende con 15 dipendenti o di più?”.

Allora: l’abolizione dell’articolo 18 porterà lavoro in Italia? Oggi il tema è la crisi e le imprese che non assumono. L’articolo 18 non serve a creare occupazione. In un Paese in stato di recessione economica come il nostro, questa proposta di riforma non è di certo la cura meravigliosa per guarire i mali, né tantomeno per incrementare il lavoro.

La Riforma Renzi si concentra solo sul lavoro dipendente ma non si preoccupa di quello che è il vero tema attuale: quale sarà il lavoro del futuro? L’Italia è cambiata e il lavoro del futuro dovrà tener conto delle nuove tecnologie, dei cambiamenti demografici e del fatto che sempre di più il lavoro sarà autonomo.

Ancora una volta: il risultato della riforma del lavoro è un “flop”!

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