Flessibilità in uscita, contributo sulle pensioni più elevate e riduzione dell’aliquota previdenziale per chi ha meno di 30 anni. È la riforma delle pensioni in tre punti proposta da Nicola Salerno, senior economist di CeRM – Competitività, Regole e Mercati. Gli occhi di tutti sono puntati sulla prossima Legge di stabilità, dalla quale in molti si aspettano risposte anche sul fronte delle pensioni. Il Senato ha appena approvato la sesta salvaguardia per quanto riguarda gli esodati, ma ci sono ancora molti altri cantieri aperti.



In che modo è possibile intervenire sulle pensioni nella Legge di stabilità?

In primo luogo va chiarito che non basta intervenire sulle pensioni per uscire dalla crisi. Ciò che occorre per rilanciare l’economia è immettervi delle risorse fresche. Non è ridistribuendo le risorse esistenti che possiamo cercare quella spinta decisiva a risollevarci. Le pensioni non possono essere il toccasana dell’economia, così come del resto non lo è l’abolizione dell’articolo 18.



La flessibilità può rendere più equo ed efficiente il nostro sistema pensionistico?

Il pensionamento flessibile, introdotto in Italia dalla legge Dini nel 1995, ha previsto un intervallo di età in base a cui chi si ritira prima dal lavoro prende un po’ meno e chi si ritira dopo prende di più. La riforma Fornero, con l’obiettivo di migliorare i conti pubblici, ha rinunciato a questa flessibilità di pensionamento riportando in auge e innalzando i vincoli puntuali di età o di contribuzione. L’obiettivo era bloccare le coorti che stavano andando in pensione nel 2011/2012 e generare dei risparmi nel bilancio pubblico.



È possibile ritornare oggi al principio alla base della legge Dini?

Reintrodurre il pensionamento flessibile può essere fatto in tanti modi, a cominciare dalla scelta dell’età, ma sarebbe comunque una buona cosa. In questo modo si favorisce il turnover tra giovani e anziani. Obbligare una persona a lavorare quando non lo desidera più, oltre a rappresentare una forzatura nei confronti della sua sfera privata e personale, è un rischio per il datore di lavoro perché chi rimane al lavoro controvoglia ha una produttività più bassa. Con l’ulteriore conseguenza negativa di bloccare il fisiologico ricambio del mercato del lavoro.

La Corte costituzionale ha detto no al contributo di solidarietà sulle pensioni d’oro. La partita è definitivamente chiusa?

Con tutto il rispetto per la Consulta, quella sentenza era difettosa non soltanto nella logica economica ma anche in quella giuridica. Purtroppo non è la prima volta che la Corte costituzionale si mostra troppo meccanicistica nei ragionamenti. Prende decisioni come poteva fare all’indomani del 1948, quando il mondo era completamente diverso. Quella sentenza ha lasciato l’amaro in bocca, e la sensazione è che chi voleva il prelievo sulle pensioni molto elevate non si sia fatto comprendere dalla Corte. Reiterare un tentativo di questo tipo, spiegandolo meglio, potrebbe essere un punto positivo. In questo momento in cui le risorse sono poche e i consumi sono bassi, operare una redistribuzione tra chi ha avuto molto e chi ha avuto poco potrebbe essere un buon segnale.

 

Lei come reinvestirebbe il ricavato del contributo di solidarietà?

I risparmi di spesa ottenuti con questo secondo punto andrebbero utilizzati per finanziare una riduzione dell’aliquota contributiva obbligatoria pensionistica per le persone sotto ai 30/35 anni. Le generazioni più giovani infatti si troveranno a vivere un’enorme contraddizione. Alti contributi obbligatori sul lavoro corrispondono per i giovani a basse prospettive di pensione. Il Pil infatti cresce poco e quei contributi maturano a tassi di crescita insufficienti. Contributi pari al 33% del reddito da lavoro lordo matureranno rendimenti insufficienti perché il sistema economico cresce poco e ci sono sproporzioni tra generazioni che rendono difficile la crescita.

 

(Pietro Vernizzi)