Dove vanno i sindacati nel nostro Paese? Di fronte a questa domanda risulta difficile formulare una risposta univoca, in poche righe e con qualche affermazione comprensibile, oltre che sostenuta da argomentazioni riscontrabili nella realtà. Infatti, quando parliamo di “sindacati” ci riferiamo non solo a un sistema in cui convivono diverse organizzazioni, ma anche di tanti mondi professionali e merceologici, di aree di rappresentanza in territori e settori estremamente diversificati: per comprenderlo basta mettere a confronto i diversi mondi del lavoro che caratterizzano il Paese e ciò sarebbe sufficiente per fermarsi ai punti interrogativi.



Cosa hanno in comune gli insegnanti con gli addetti all’edilizia? Il lavoro pubblico (sanità, enti locali, statali, ecc.) con i settori ad alta innovazione (la farmaceutica, le comunicazioni, i media, ecc.)? I variegati mondi dei metalmeccanici (informatica, siderurgia, automotive, impiantistica, ecc.) con i lavoratori somministrati, del commercio, del turismo, i bancari, ecc.?



Se al Cnel sono registrati oltre 400 contratti di lavoro una ragione ci sarà e non è un caso che se ci sono numeri di queste dimensioni significa che oltre alle tante (troppe?) organizzazioni sindacali si sommano altrettante organizzazioni dei datori di lavoro. Infatti, le aree di “nervosismo” che si percepiscono in Confindustria circa possibili uscite dal sistema delle imprese ex pubbliche (Finmeccanica, Enel, Ferrovie dello Stato, ecc.) sono determinate da un’insoddisfazione sulla qualità dei servizi di assistenza e rappresentanza erogati, non ultimi i costi di affiliazione dovuti ai grandi numeri degli occupati e dai numerosi siti territoriali dislocati sulla penisola e in capo ai grandi trust delle ex partecipazioni statali.



Mondi del lavoro e rappresentanze da essi espressi sono figli di storie pluriennali, che hanno caratterizzato l’evoluzione sociale ed economica del nostro Paese e che hanno influenzato le alterne vicende del Pil e della distribuzione della ricchezza, accanto agli innegabili fattori collegati ai gradi di crescente internazionalizzazione e globalizzazione della nostra economia, oltre che a quelli storici che ci hanno costretto a una stretta dipendenza nello sviluppo (per esempio, le materie prime, in primis l’energia).

In questo senso si avverte una crescente difficoltà da parte dei sistemi “confederali” a tenere insieme le diverse particolarità, anche per ragioni collegate alle dinamiche di mercato (chi è soggetto alla concorrenza rispetto a chi vive in regimi di semi protezione); inoltre, in questa situazione di perdurante recessione l’azione sindacale si indebolisce, rischia di ruotare su se stessa e di perdere i connotati di costruzione del bene comune, con tratti di corporativismo da una parte e rigurgiti di antagonismo dall’altra.

La Fiom-Cgil, per esempio, si sta caratterizzando per un’azione che dura da quasi vent’anni, ben prima dell’avvento dell’attuale capo Maurizio Landini: la nostra memoria collettiva ha perso i nomi dei suoi precedenti leader (Rinaldini e Sabbatini), che da sempre hanno guidato il sindacato “rosso” dei metalmeccanici con un’impronta di carattere politico, condizionante la propria casa madre Cgil. I vari Epifani, Cofferati, Trentin, Pizzinato (e qui ci fermiamo) hanno sempre avuto problemi di tenuta con la Fiom e le altre organizzazioni interne da essa condizionate.

Un discorso a parte riguarda la Cisl, alle prese con un repentino cambio della dirigenza confederale e che non ha coinvolto solo la posizione di massima responsabilità con l’elezione di Annamaria Furlan a segretario generale, in sostituzione di Raffaele Bonanni. Gli spostamenti interni nella filiera, le riorganizzazioni in corso (accorpamenti di territori/province e di Federazioni di categoria), le semplificazioni annunciate e in via di decollo, non consentono a oggi di verificare fino in fondo il profilo definitivo a cui questa organizzazione perverrà, anche se la tradizione cislina e la solida robustezza della leadership, a iniziare da Furlan stessa, ci permettono di sostenere che non assisteremo a scossoni di natura strategica e politica.

Tuttavia i nodi della questione sindacale rimangono sul terreno in tutta la loro evidenza, in particolare la natura e gli scopi delle rappresentanze sociali oggi; nodi che si infiammano ulteriormente con le bordate renziane sui Patronati e sui Caf, che rappresentano una delle tante vicende contradditorie di questa fase di governo, che porta innegabili novità ma anche altrettanti interrogativi sui risultati finali.

La partita su cui i diversi sindacati si stanno interrogando (ma anche le stesse rappresentanze dei datori di lavoro) si pone a questo livello e con due domande di fondo: il sistema politico e istituzionale è in grado, da solo, di governare processi sociali ed economici sempre più complessi, senza il concorso delle forze sociali stesse? E a quali cambiamenti occorrerà mettere mano per tornare a dialogare per la costruzione del bene comune del nostro Paese?

Il tema ritorna, come detto, sulla natura e sugli scopi delle rappresentanze sociali: i professionisti della rappresentanza devono rispondere a questa seconda domanda, la cui risposta non è scontata come può apparire per quella precedente.

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