“Un errore il sindacato lo ha fatto, sulla riforma pensioni. Avremmo dovuto accettare il contributivo pro rata per tutti. Ci saremmo risparmiati tanti problemi che sono venuti dopo”. A riconoscerlo è Luigi Angeletti, segretario nazionale uscente della Uil. Secondo quanto stabilito dalla riforma pensioni di Dini, il sistema italiano prevede che quanti nel 1995 lavoravano già da almeno 18 anni vadano in pensione con il metodo retributivo che garantisce un assegno mensile molto più ricco e sostanzioso. Mentre le pensioni di tutti gli altri sono calcolate con il metodo contributivo, che produce però assegni molto più poveri. Abbiamo chiesto un commento a Daniele Cirioli, ricercatore, scrittore ed esperto di tematiche legate al lavoro e alla previdenza.
Che cosa ne pensa delle dichiarazioni di Angeletti?
«Meglio tardi che mai», verrebbe da dire se servisse a porci rimedio. Ma ormai non c’è più nulla che possa essere corretto: 20 anni (il tempo trascorso dal 1995) più 18 anni (il minimo richiesto al 31 dicembre 1995 per restare nel vecchio e agiato sistema contributivo delle pensioni) fa 38 anni! Con 40 anni si matura il massimo della pensione: si capisce, allora, che ormai le categorie privilegiate stanno tutte beatamente in pensione sulle spalle dei lavoratori. Non dimentichiamo (e lo ricordo all’ex Segretario Uil) che negli ultimi trent’anni non è cambiato soltanto il criterio di calcolo della pensione, ma anche i requisiti per il diritto. In pratica sono aumentati i contributi versati dai lavoratori e, contemporaneamente, è diminuita la misura delle pensioni: peggio non poteva capitare! L’aumento è arrivato dall’allungamento della permanenza al lavoro, mediante l’innalzamento del requisito d’età per la pensione.
In che modo?
Per rendere l’idea, se fino agli anni ’90 si andava in pensione a ogni età con 15 anni, 6 mesi e 1 giorno di lavoro, oggi la via più breve è maturare almeno 5 anni di contributi e 70 anni d’età oppure almeno 20 anni di contributi e 66 anni di età (se la pensione supera i 1.500 euro mensili, altrimenti servono 70 anni d’età!). Anche la riduzione dell’importo della pensione è arrivato, indirettamente, dall’allungamento dell’età di pensionamento, perché più si ritarda il momento di andare in pensione e meno pensione si intascherà (complessivamente). Credo nella buona fede di Angeletti, ma quell’affermazione, oggi, ha un po’ il sapore di beffa, che si aggiunge al notevole danno per un’intera generazione alla quale è stato praticamente “resettato” il futuro.
È possibile introdurre un contributo di solidarietà con tasse più alte sulle pensioni retributive?
La soluzione andrebbe studiata: meglio un contributo di solidarietà (perché rimane nel circuito previdenziale), piuttosto che una maggiore tassazione (che rientra nella fiscalità generale). Quel che è certo è la necessità di un intervento “riparatore” dello squilibrio tra le generazioni. Faccio un esempio sull’assurdità del contributo sulle pensioni d’oro, censurato dalla Corte costituzionale nel 2011 e reintrodotto quest’anno dalla Legge di stabilità. Se la Corte costituzionale stavolta dirà di sì, andrà versato dal 1° gennaio 2014 al 31 dicembre 2016 in misura: del 6% sulla parte di pensione superiore a 91.250 euro e fino a 130.358 euro; del 12% sulla parte di pensione oltre i 130.358 e fino a 195.536 euro; del 18% sulla parte di pensione oltre 195.536 euro. Le giovani generazioni possono solo sognarle quelle cifre di pensione: sono vietate dalla legge!
Cosa intende dire?
Il sistema contributivo, infatti, mette un limite all’importo massimo di pensione che si può ottenere (vale per chi ha cominciato a lavorare dal 1996). Ammettiamo, tuttavia, che sia possibile anche per le giovani generazioni (del sistema contributivo) maturare una pensione così alta. Sa i contributi che occorre versare in 35 anni per avere una pensione di 90mila euro?
No, dica lei.
Oltre 1.800.000 euro (3,5 miliardi di vecchie lire). E per maturare una pensione di 130mila euro? Circa 2.600.000 euro (5 miliardi di vecchie lire). E per una pensione di 195mila euro? Circa 3.900.000 euro (7,5 miliardi di vecchie lire). Ora di un sistema previdenziale “equo”, che cioè tratti allo stesso modo tutte le generazioni, vecchie e nuove, si dovrebbe poter affermare che tutti i pensionati, quelli di ieri come quelli di oggi, maturano la pensione con lo stesso sforzo contributivo. E qui sono io a fare una domanda: è verosimile che negli anni ‘70 ci fossero lavoratori con una retribuzione di 300 milioni di vecchie lire ovvero di 435 milioni di vecchie lire ovvero di 655 milioni di vecchie lire? No, è chiaro! E perciò neppure si può dire del nostro sistema previdenziale che sia equo tra le generazioni.
In caso di contributo di solidarietà, come andrebbero utilizzati i proventi? Per le pensioni minime? Per le tutele degli esodati?
Né per le pensioni minime e neppure per gli esodati. I proventi andrebbero utilizzati per riparare lo squilibrio tra le generazioni, cioè impiegati per favorire le pensioni dei lavoratori di oggi (e di domani).
Quale soluzione si potrebbe adottare senza incorrere in una nuova sentenza negativa della Consulta?
Credo che sia buona la soluzione adottata dalla Legge di stabilità. Quella, cioè, di lasciare il contributo nel “sistema previdenza” e di non utilizzarlo come fosse una fonte aggiuntiva di tassazione, così come si fece per la prima versione del 2011. Senza dimenticare che l’Italia ha la caratteristica di avere un primato nella giurisprudenza creativa…. Quindi, c’è da attendersi di tutto.
Le pensioni retributive sono il motivo per cui il sistema previdenziale in Italia costa di più che altrove?
I fattori sono tanti a cominciare dal “sistema retribuito” male applicato fino ai problemi di falso assistenzialismo (penso a tanti malati veri ai quali manca spesso il necessario e ai finti invalidi che campano sulle spalle dei lavoratori). Il problema è un altro: la centralità e il ruolo dello Stato e l’incapacità della politica di decidere per il vero bene comune. Il cancro è tutto qui: nella corruzione, non solo materiale quanto assunta a “ideologia”, che ormai regna dappertutto.
È giusto che le giovani generazioni paghino per dei privilegi che sono stati adottati quando la situazione economica era del tutto diversa da quella attuale?
Assolutamente no! E credo che se davvero fossimo vissuti in uno stato di diritto, questa disumana disuguaglianza sociale perpetrata a danno delle giovani generazioni non sarebbe mai esistita e nessuna Corte costituzionale avrebbe fatto obiezioni. Non è questione di “crisi” o di “situazioni economiche” favorevoli o non favorevoli: il problema è stato (e continua a essere, purtroppo) squisitamente politico. Perché è stata solo ed esclusivamente la politica, con una legge votata dal Parlamento, anni fa (anni ‘70-80) a “vincolare” le giovani generazioni a dover finanziare con i propri contributi (cioè con sudore della propria fronte) quei privilegi. Giovani generazioni alle quali non è stato mai chiesto se fossero d’accordo, semplicemente (astutamente?) perché ancora non “esistevano” quando quelle leggi venivano inventate e approvate. È come se io acquistassi oggi una villa in Costa Azzurra senza spendere nulla, sulla promessa che a pagare il conto ci penserà mio figlio non ancora nato. Inconcepibile!
Come va ridisegnato il sistema pensionistico perché sia più equo e sostenibile?
La soluzione, non mia, si chiama “principio di sussidiarietà”: lo Stato deve astenersi da quanto è raggiungibile dai singoli individui (persone). Che significa che alla pensione dovrebbero pensarci gli stessi lavoratori: con il 40% del loro costo salariale riuscirebbero a guadagnare molto di più di quanto garantisce oggi l’Inps (lo Stato). Per realizzare questa soluzione andrebbe distinto ciò che è pensione (previdenza da lavoro) dall’assistenza (prestazioni a indigenti, invalidi, ecc.). Alla pensione dovrebbero pensarci i singoli lavoratori, come detto; all’assistenza lo Stato. Mi rendo conto che è utopia: una soluzione troppo lontana dalla nostra cultura per cui il “pubblico è più bello”. E poi la nostra è una politica che non rischia, perché ama poco il servizio e troppo gestire il potere. Mi è capitato di parlarne con un ex ministro del Lavoro. La risposta è stata lapidaria: “Questo, io, non lo farò mai!”.
(Pietro Vernizzi)