Più che la diatriba sullo sciopero generale, è una frase pronunciata in un comizio a fornire la chiave per interpretare questo momento della vita sindacale. A pronunciarla è stato Carmelo Barbagallo, il nuovo segretario nazionale della Uil. Siciliano, ha 67 anni e un curriculum nel quale c’è posto per il lavoro minorile, il lavoro in nero, le minacce della mafia, le lotte per Termini Imerese. Non stupisce quindi che durante la manifestazione a sostegno del rinnovo del contratto del Pubblico impiego, egli abbia concluso così il suo intervento: “Ora lo sciopero generale, e subito dopo la rivoluzione”. Non stupisce perché in fondo in questo momento si confrontano di nuovo due visioni sindacali: da un lato, chi si sente ancora pienamente nel XX secolo, con magari qualche appendice nel XIX, e chi cerca di pensare al XXI secolo e a quel che ci attende.
Intendiamoci, questa (di)visione non è per nulla nuova, né essa può stupire chi segue, per lavoro o interesse, le vicende sindacali e quindi sa che nell’ultimo ventennio esse si sono misurate (anche con durezza) in più e più occasioni: e poco importa se prima la Uil faceva corpo con la Cisl e oggi pencola verso la Cgil. Non è una questione di pesi o di equilibri, ma di sguardi e di radici.
Annamaria Furlan nega che ci siano motivazioni valide per fermare il Paese con lo sciopero generale: la neo segretaria Cisl non lo dice espressamente, ma la domanda che il sindacato di via Po si pone è anzitutto quali siano gli obiettivi che si spera di raggiungere con l’astensione generale dal lavoro. Uno sciopero generale serviva negli anni Settanta e Ottanta per far cadere un Governo: prigioniero di un rito, chi oggi lo proclama davvero spera che Renzi il 13 dicembre si presenti al Colle per dimettersi? È uno scenario credibile? No, forse nemmeno per chi non riesce a uscire dalla morsa sinistra Pd-Fiom o per chi pensa con nostalgia all’ottobre rosso (non il sommergibile del celebre film, ma proprio agli eventi del 1917).
Non che il Governo abbia risolto alcun problema o che i nove mesi del rottamatore siano destinati a passare alla storia come la culla di un nuovo boom economico italiano: oltre 5 milioni di lavoratori del Pubblico impiego aspettano il rinnovo del loro contratto, i conti sono in perfetto disordine, il manifatturiero ansima, il piccolo commercio sta rantolando, il credito balbetta, al contrario del costo dell’energia che corre a piena forza e della disoccupazione che sembra Usain Bolt alle Olimpiadi.
Eppure qualche segnale nuovo sta emergendo: il Jobs Act, nella sua confusione, presenta indubbi segnali positivi, il Governo sta, per necessità se non per convinzione, mettendo da parte l’idea di poter fare tutto da solo senza coinvolgere le parti sociali, 80 euro al mese sono meglio di nulla, chi esporta regge e (perfino) si sviluppa. Tutto questo è stato strappato dai sindacati al Governo con un paziente e silenzioso lavoro certosino.
Qui è dunque la radice della diversa scelta fatta da Cisl e Cgil/Uil: lo sciopero generale servirà al Paese o serviva per compattare le truppe in vista del congresso confederale (Uil) e dei prossimi impegni elettorali (Cgil-Sinistra Pd)?
C’è poi un altro interrogativo che questi eventi fanno emergere: la diversa scelta segna la fine dell’unità sindacale? La fine no, perché finisce solo ciò che è iniziato, ma essa è destinata a restare poco più di un mito almeno fintanto che tutte, e non solo qualcuna, tra le centrali confederali decidano davvero di uscire dal XX secolo.