Lunedì il settimanale economico de “La Repubblica”, Affari e Finanza, ha pubblicato in prima pagina ciò che su queste pagine abbiamo scritto più volte. Dopo gli ultimi e rilevanti movimenti in seno alla Confederazione degli industriali, anche la stampa nazionale inizia così a interrogarsi seriamente sul futuro delle confederazioni e del sistema confederale. La novità è che, più che altro, la vicenda sta arrivando ad avere un importante risalto mediatico. E questo è un evidente segnale che il sistema è a un punto di svolta. Per il resto, le cronache continuano a registrare le manovre del Governo che vuole portar fuori le partecipate da Confindustria – come diciamo da tempo – e di aziende molto importanti che lasciano gli Industriali, vedi Impregilo e UnipolSai.



Il malcontento delle imprese non si spiega solo con i costi associativi troppo alti: c’è la seria difficoltà oggi di rappresentare impresa e lavoro in un’economia molto complessa, diversa da quella di ieri; c’è la difficoltà delle Associazioni d’impresa in questi anni a tutela delle loro imprese associate, per le quali i Governi che si sono alternati – dal 2008 sono stati ben quattro – non hanno fatto nulla, mentre tutti i Governi del mondo intervenivano a sostegno dell’economia reale. In Italia siamo stati capaci di fare solo politiche passive (si legga cassa integrazione), ovvero interventi che si limitano ad ammortizzare perdite e non generano nessuna condizione per la crescita; politiche che di sicuro non hanno soddisfatto le Associazioni datoriali, ma la cui voce – anche per via di un contesto poco favorevole all’impresa – è stata poco ascoltata.



Anche Confcommercio e Confartigianato non se la passano molto bene. La loro situazione segue a ruota quella degli Industriali, su cui c’è da sempre più attenzione mediatica. La Grande distribuzione organizzata, che nel 2011 ha lasciato i Commercianti, è un “caso Fiat” del Commercio. Gli artigiani, invece, assistono quasi impotenti alle difficoltà della microimpresa in tempo di economia globale. Renzi in tutto questo ci ha messo del suo: ha messo sotto pressione il sistema, da una parte sindacati (Cgil in particolare), dall’altra gli industriali minacciandoli di portare fuori le aziende partecipate.



Il caso è in evoluzione, come abbiamo già rilevato; all’interno del sistema c’è la percezione che le confederazioni debbano fare un passo indietro e lasciare così più spazio alle federazioni. È molto probabile che il sistema confederale troverà un accordo su un nuovo modello contrattuale che libererà di molto la contrattazione e il lavoro delle federazioni di categoria, i veri protagonisti della contrattazione.

Rimangono da capire alcune questioni di fondo: come al solito in Italia, quando si è in procinto di un cambiamento importante, pare – mi si conceda questa metafora – che “l’usato” sia da buttare a favore del “nuovo” a ogni costo. Risulta difficile pensare che l’economia possa da domani prescindere dalla contrattazione collettiva nazionale e che tutte le aziende si mettano a contrattare aziendalmente e direttamente: il 98% del nostro tessuto produttivo è fatto di Pmi, ed è chiaro che il Ccnl a una grossa fetta di questo tessuto risolve molti problemi; consideriamo inoltre che solo il 30% circa delle imprese del sistema confindustriale (che corrisponde al 65% dell’occupazione) fa contrattazione aziendale e che, considerando anche le imprese del Commercio e dell’Artigianato, questo 30% è destinato a scendere.

Certamente la contrattazione di prossimità crescerà e, laddove legata alle variabili della produttività e della reddititvità, potrà registrare dei buoni risultati. Ma il sistema è pronto? Gli attori e coloro che domani si ritroveranno d’emblée a essere protagonisti della contrattazione sono pronti? Ecco perché “l’usato” non può essere rottamato.

 

In collaborazione con www.think-in.it