Quando si discute della Pubblica amministrazione è quasi sempre dovuto a casi eclatanti di disservizio o di sprechi. Certamente i comportamenti in qualche caso, come per i rimborsi spese dei consiglieri regionali, superano l’immaginazione. In fondo, il forte astensionismo registrato nelle recenti elezioni per la Regione Emilia Romagna indica più una lontananza dall’istituzione in quanto tale che una lontananza dalla rappresentanza politica. Come se i fatti emersi nelle inchieste avessero portato i cittadini di tutte le tendenze a non ritenere più la Regione una loro casa. Quando il problema diventa però patologico, i casi si riproducono a tutti i livelli della Pa e i cittadini non vedono più un luogo dove sono accolti, ma si sentono sudditi. È bene allora che ci sia un intervento riformatore che cerchi di affrontare il problema alla radice. Per questo non si può che guardare con favore al disegno di riforma che il ministro Madia ha avviato in questi mesi.



La volontà espressa dal Governo ha trovato per ora realizzazione in un primo intervento legislativo e in una proposta di legge con ampie deleghe che è in corso di approvazione alle Camere. Gli obiettivi indicati sono quattro: la cittadinanza digitale, la riorganizzazione dello Stato sul territorio, la semplificazione dei servizi e delle procedure e una reale attuazione delle norme.



La prima fase è stata caratterizzata da decisioni di rottura. Il limite posto ai distacchi sindacali, il contenimento delle ferie dei magistrati, i limiti agli incarichi per dirigenti già in pensione, il tetto alle retribuzioni fino al ridisegno delle Camere di Commercio sono misure destinate più a smuovere resistenze e conservatorismi e far emergere un consenso all’avvio di un disegno di riforma più complessivo che un cambiamento già compiuto. Certo, hanno reso evidente che non è vero che non si può fare niente: una volontà politica riformatrice può incidere su situazioni di incrostazioni corporative ottenendo risparmi e rimettendo in moto risorse umane ed economiche.



Sulla base di questo primo passaggio i provvedimenti successivi dovranno definire il vero e proprio disegno di riforma. Nuove procedure e reale attuazione delle norme a tutti i livelli della Pa saranno determinanti. Nonostante gli interventi di semplificazione introdotti negli ultimi anni, ancora oggi, sia per i cittadini che per le imprese, non si è applicato il principio che sono loro che devono poter esercitare i diritti e non devono chiedere in diversi sportelli della Pa il permesso di esercitarli. Se per esercitare un mio diritto devo chiedere il permesso a qualche ente sto prefigurando una burocrazia che sarà più interessata al formalismo che non ai controlli di merito e a favorire l’ottenimento dei risultati. Avremo una moltiplicazione di livelli finalizzati a controllarsi a vicenda e una minoranza interessata alla decisione. È dentro questo meccanismo che inoltre si apre la strada ad abusi che possono poi diventare fenomeni corruttivi.

È quindi da rimettere in discussione a monte il processo procedurale e così si può ridisegnare la funzione stessa della Pa e di chi vi lavora. Trasparenza, digitalizzazione, semplificazione e riorganizzazione sono strumenti importanti, ma se supportano una decisione chiara che indichi la restituzione del potere ai cittadini che sono i veri padroni della Pa.

Perché le decisioni normative vengano attuate vi è bisogno certamente di una riorganizzazione dei livelli amministrativi e di unificare la presenza dello Stato in un unico sportello nelle sedi decentrate. Il coordinamento operativo fra Ministero, Regioni ed Enti locali è altrettanto determinante. Fondamentale diventa quindi la questione del personale e di come con la riorganizzazione si favorisce l’emergere di chi è in grado di affermare un nuovo rapporto con i cittadini nello svolgere i propri compiti.

L’impiegato pubblico semplice passacarte, quello per cui vale solo il posto di lavoro da occupare in attesa della pensione e che non ha a cuore il proprio compito, deve diventare una caricatura del passato. È importante che si favorisca la mobilità territoriale e che la premialità sia legata a nuovi obiettivi. Nella riorganizzazione si può procedere ottimizzando le competenze utili ai nuovi compiti e favorire processi di riorganizzazione con definizione di piante organiche più funzionali.

Sarebbe importante operare nella Pa come nel privato. Fatto salvo il divieto di licenziamento, si tratta di un vero e proprio processo di ristrutturazione e il supporto di strumenti presi dalle esperienze di mercato (outplacement nel perimetro Pa., valutazione delle competenze, orientamento, ecc.) sarebbero utili per impostare in modo diverso anche il rapporto con i lavoratori (sarebbero impiegati della Repubblica e non di singoli Enti locali) e con i sindacati. È qui che è invece prevalso un riflesso condizionato che rischia di essere un freno a tutto.

È evidente che, stante il perdurare di un processo di spending review, si è prorogato il blocco dei costi salariali e per questo è scattata la scelta di indire uno sciopero generale della Pa. da parte dei sindacati. Non si tiene conto che una valutazione oggettiva rileva come i salari nella Pa sono comunque cresciuti più di quanto avvenuto nei settori privati grazie a scatti di tutela automatici maggiori. Ma nella piattaforma di sciopero ci si contrappone anche ai processi di riorganizzazione riformatori.

Si perde così un’altra occasione per il sindacato di dimostrare la propria utilità nel favorire una riorganizzazione che premi la produttività e metta al centro della sua proposta una Pa per i cittadini e le imprese. Se resta a difesa di ferie più lunghe, lassismo nei permessi, tutela dell’assenteismo e del precariato, si pone come elemento di conservazione e si troverà a essere visto come fronte dei privilegiati contro un Paese che chiede di tornare a premiare l’impegno e la responsabilità del lavoro.