Il tetto alle pensioni d’oro dei funzionari pubblici si applicherà solo a decorrere dal 2015. Una modifica dell’emendamento alla Legge di stabilità approvato all’ultimo minuto ha salvato i ricchi assegni degli ex burocrati che si sono già ritirati dal lavoro o che lo faranno entro il 31 dicembre prossimo. Significativo comunque il principio introdotto dalla nuova norma. Si prevede che l’assegno pensionistico non possa “eccedere quello che sarebbe stato liquidato con l’applicazione delle regole di calcolo vigenti prima dell’entrata in vigore”. Ne abbiamo parlato con Nicola Salerno, direttore del Centro Studi Reforming.
Che cosa ne pensa dell’emendamento sulle pensioni d’oro?
Per ottenere dei risparmi consistenti, l’intervento sulle pensioni deve essere il più ampio possibile. Sia nel tempo, cioè coinvolgendo le pensioni già in essere, sia sulla platea dei pensionati, non limitandosi a quelli del pubblico impiego e men che meno con interventi di tipo settoriale o categoriale. Se si congegna un intervento di questa portata allora i risparmi incominciano a diventare interessanti e l’intervento ha anche una logica. Già in precedenza avevo delle perplessità sui termini dell’intervento sulle pensioni, se ora è ancor più circoscritto si sgonfia ancora di più, e la domanda che sorge spontanea è se sia davvero utile una misura di questo tipo.
Quindi questa misura da sola non può bastare?
Ci si limita a mettere delle toppe nell’immediato, senza poi risolvere i problemi in modo definitivo e sul piano strutturale. Sono da sempre favorevole a un ritocco delle pensioni retributive. Ritengo però che non ci si debba limitare alle pensioni alte con intenzioni punitive, ma che si debba chiedere un pay-back (una restituzione, ndr) sulla differenza tra gli assegni percepiti e i contributi versati. Questa differenza è dovuta sia alla generosità delle regole, sia ad anzianità e vecchiaia sufficienti per andare in pensione negli anni ’80.
È il momento giusto per intervenire sui vecchi privilegi?
Sì, in un momento di crisi diventa ancora più urgente fare entrare in una politica di riequilibrio dei redditi anche una questione di equità intergenerazionale. A condizione però che questa riforma sia fatta bene.
Lei che cosa propone in concreto?
Quello che si può fare è individuare un’età ideale in cui le diverse generazioni dovrebbero andare in pensione. Bisogna quindi fare in modo che le pensioni che queste persone stanno effettivamente ricevendo dopo essere andate in pensione a un’età più vantaggiosa tengano conto sia di quanto stanno effettivamente percependo sia dell’assegno che avrebbero ricevuto se si fossero ritirate dal lavoro a un’età più congrua. Da quest’equazione finanziaria derivano delle percentuali di abbattimento delle pensioni a oggi in erogazione.
Di recente l’ex segretario Uil, Luigi Angeletti, ha ammesso che ai tempi della riforma Dini fu un errore lasciare in piedi il sistema retributivo…
Il motivo è che ci siamo accorti troppo tardi del fatto che il sistema era troppo generoso. Anche quando è stata approvata la riforma Dini, non si aveva ancora piena consapevolezza della dimensione del fenomeno dell’invecchiamento della popolazione e della caduta della crescita economica.
Siamo ancora in tempo per rimediare agli errori del passato?
Oggi con il senno di poi è possibile individuare in modo equilibrato quali sarebbero dovute essere le scelte migliori per le finestre di pensionamento negli anni passati, e quindi introdurre delle percentuali di correzione per le pensioni in erogazione. Non quindi di quelle che verranno dal 2015, ma di tutte quelle in erogazione. Ciò facendo salvo un livello minimo di pensione al di sotto delle quali nessuno può scendere, perché altrimenti si rischia l’incapienza, e magari evitando di applicare in senso elettorale queste correzioni al ribasso.
(Pietro Vernizzi)