Le imprese e gli operatori si aspettano cambiamenti importanti sulle modalità di ingresso nel mercato del lavoro nel corso del 2015, anche se i contenuti e le istruzioni operative di tali novità si potranno conoscere verosimilmente solo dopo il 21 dicembre. Quali saranno dunque le tipologie di contratti di lavoro nel nuovo anno?
In questo periodo di passaggio caratterizzato dall’incertezza, le notizie sino a oggi circolate stanno comunque determinando nelle aziende due tipi di strategie. Innanzitutto, molte imprese hanno sospeso, per quanto possibile, le assunzioni e le stabilizzazioni dei contratti, in attesa di poter beneficiare sia degli sgravi promessi per i nuovi contratti a tempo indeterminato instaurati nel 2015, sia del nuovo regime di tutela in caso di licenziamento in cui scomparirà, almeno in parte e comunque solo a partire dai neoassunti nel 2015, il diritto al posto di lavoro in caso di licenziamento non giustificato.
Il secondo effetto delle notizie diffuse in questo fine anno è la corsa al rinnovo delle collaborazioni coordinate continuative a progetto, per effetto delle parole “fino al suo superamento” comparse a riguardo di questi contratti nel disegno di legge delega in ultima lettura della Camera, nella comprensibile speranza che i contratti già in essere prima della soppressione di questa tipologia contrattuale siano salvaguardati fino alla loro cessazione.
Ma scendiamo più in dettaglio nel verificare qual è lo stato dell’arte e il contenuto a oggi conosciuto della legge delega e del decreto attuativo che si occuperà delle modifiche sulle forme contrattuali di lavoro e che dovrebbe confluire nel cosiddetto Codice Semplificato del Lavoro.
La Legge Delega, più nota come Jobs Act (che con un po’ di creatività si potrebbe chiamare il Jobs Act atto secondo), approvata definitivamente dal Parlamento il 3 dicembre scorso, è ora in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, ed entrerà in vigore il giorno successivo a tale pubblicazione. Il Jobs Act ha per oggetto i principi e i criteri direttivi cui dovrà attenersi il Governo nell’adottare i decreti legislativi, vero contenuto e cuore della riforma e di cui la legge delega è cornice, per la semplificazione e il riordino di cinque specifiche materie (ammortizzatori sociali, servizi per l’impiego, adempimenti e procedure nella gestione dei rapporti di lavoro, disciplina dei rapporti di lavoro, tutela e conciliazione delle esigenze vita-lavoro), decreti che dovranno essere adottati entro i prossimi sei mesi.
In particolare, è all’interno di quello finalizzato alla disciplina dei contratti e dei rapporti di lavoro che, come ha espresso il senatore Pietro Ichino nella sua Relazione alla commissione Lavoro del Senato “potrà essere disposto il superamento del tipo contrattuale particolare della collaborazione coordinata continuativa costituito dal contratto di lavoro a progetto”, superamento che non dovrebbe invece interessare, precisa lo stesso Ichino, “i contratti di lavoro autonomo aventi per oggetto un’attività continuativa nel tempo”. Il riferimento è ad esempio al contratto con “un agente di commercio, un amministratore di condominio, un amministratore di società, un ragioniere che tiene continuativamente la contabilità di un’impresa” e, aggiungerei, quelle forme di collaborazione coordinata continuativa con professionisti, ad esempio con giornalisti e medici già dipendenti, consentite dai rispettivi albi e fuori dal campo di applicazione Iva.
Non è invece chiaro se, oltre alle co.co.pro., rischieranno di scomparire anche altre forme contrattuali di lavoro, dato che nel Jobs Act la delega è ampia perché si riferisce genericamente all’analisi delle forme contrattuali esistenti per valutarne “l’effettiva coerenza con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale e internazionale, in funzione di interventi di semplificazione, modifica o superamento delle medesime tipologie contrattuali”. Esiste qualche timore che quest’ampia delega possa travolgere il contratto di lavoro a chiamata (job on call) che invece, mi pare, sia perfettamente “coerente con il contesto produttivo”, sicuramente quello nazionale caratterizzato di frequente da una non prevedibile e incostante necessità di forza lavoro.
Come saranno invece ridefiniti i confini dell’area del lavoro dipendente? Il Jobs Act introduce tra i primi criteri direttivi per la redazione del cosiddetto Codice semplificato, la promozione del contratto a tempo indeterminato quale forma comune (non privilegiata come nella prima versione della legge delega) di contratto di lavoro “rendendolo più conveniente rispetto agli altri tipi di contratto in termini di oneri diretti e indiretti”. Lo sconto degli oneri diretti e indiretti si concretizzerà a breve con l’entrata in vigore della Legge di stabilità che prevede una forte decontribuzione di tali contratti oltre a un’integrale deducibilità del costo del lavoro ai fini Irap.
In particolare, lo sgravio contributivo riguarderà solo i contratti a tempo indeterminato relativi a nuove assunzioni decorrenti dal 1° gennaio 2015 e stipulati entro il 31 dicembre 2015, e consiste nell’esonero dal versamento dei complessivi contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro, con esclusione dei premi e contributi dovuti all’Inail, nel limite massimo di un importo di esonero pari a 8.060 euro su base annua, per un periodo massimo di 36 mesi. Ad esempio, su una retribuzione lorda annua di 26.000 euro, con una percentuale di contributi a carico del datore di lavoro pari al 31%, l’impresa potrà beneficiare annualmente e per tre anni dello sconto totale massimo di 8.060 euro. Lo sgravio non si applicherà ai lavoratori già impiegati a tempo indeterminato nei sei mesi precedenti presso qualsiasi datore di lavoro o nei tre mesi antecedenti presso lo stesso datore di lavoro, anche considerando società controllate, collegate o facenti capo anche per interposta persona allo stesso soggetto.
Si tratta di una disposizione che vuole favorire l’assunzione a tempo indeterminato di giovani in cerca di prima occupazione, disoccupati e precari (anche assunti precedentemente a termine presso lo stesso o altro datore di lavoro).
Il punto più dibattuto del Jobs Act è senz’altro quello relativo al cosiddetto contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti con cui, è bene chiarirlo, non si vuole identificare un contratto diverso da quello a tempo indeterminato “comune”, ma indicare sinteticamente il cambiamento, in tema di licenziamento, della tutela del lavoratore che varia a seconda dell’anzianità aziendale.
Esso comporterà per i licenziamenti economici l’esclusione del reintegro del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto al reintegro ai licenziamenti nulli (comminati verbalmente o nei casi previsti dalla legge di maternità o matrimonio) e discriminatori, oltre che a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato.
Il concetto di “licenziamento economico” è stato circoscritto dal senatore Ichino nella citata relazione a “tutti i licenziamenti non sorretti da contestazione disciplinare (individuali per motivo economico-organizzativo o per scarso rendimento oggettivo, collettivi, temporaneamente inefficaci per mancato superamento del periodo di comporto di malattia) e per la generalità dei licenziamenti disciplinari.”.
Anche il licenziamento collettivo dovrebbe rientrare nella nozione di “licenziamento economico”, ma il nuovo regime di tutela non dovrebbe riguardare solo i nuovi assunti e dovrebbe riferirsi solo all’ipotesi di violazione dei criteri di scelta del dipendente.
Il nodo più spinoso della riscrittura dell’articolo 18 rimane l’individuazione dei casi di licenziamenti disciplinari che possono dare luogo alla reintegra. A oggi l’ipotesi allo studio è di limitarla ai soli casi di insussistenza del fatto materiale grave contestato al lavoratore (ad esempio, si dimostra che il lavoratore accusato di furto non ha mai rubato), mentre in tutti gli altri casi verrà pagato un indennizzo ridotto in proporzione alla colpa del lavoratore.
Per i licenziamenti economici scatterà invece sempre e comunque un indennizzo. A livello di sanzioni per il datore di lavoro, l’orientamento del Governo e dei tecnici sembra essere quello di prevedere in caso di licenziamento economico ingiustificato accertato davanti a un giudice un indennizzo di 1,5 mensilità per ogni anno di servizio fino a un massimo di 24 mensilità, con possibilità per il datore di lavoro di non intraprendere neppure la causa versando sul conto corrente del dipendente licenziato un indennizzo pari a una mensilità per ogni anno di servizio con un tetto di 18 mensilità. Se il dipendente non restituisce la somma e non dichiara di voler impugnare il licenziamento davanti a un giudice si considera conclusa la procedura di conciliazione.
Secondo alcuni, le modifiche introdotte all’articolo 18 potrebbero determinare una riduzione alla propensione dei lavoratori a cambiare lavoro anche per il rischio oggettivo di una tutela meno stabile. Altri sottolineano la complicazione di dover applicare diversi regimi di tutela che, almeno per un certo numero di anni dovranno convivere, a seconda che si tratti di assunti ante e post 2015. Si aggiunga che probabilmente sarà mantenuta ancora la distinzione in base al requisito dimensionale dell’azienda. Infatti, il Governo non intende aggravare i costi in caso di licenziamento illegittimo nelle imprese fino a 15 dipendenti per le quali oggi è previsto, in generale, un indennizzo da 2,5 a 6 mensilità.
Da un altro punto di vista il nuovo regime di protezione potrebbe avere da subito effetti positivi nell’attirare investitori stranieri e nel registrare un cambio di mentalità delle imprese che di frequente, anche per i possibili effetti dell’articolo 18, decidono di bloccare la soglia dimensionale della loro impresa a 15 dipendenti.
La discussione di tutti è così concentrata quasi esclusivamente sugli effetti di questo cambiamento che, se pur importante, rischia di ricondurre tutti i problemi del nostro mercato del lavoro all’abolizione dell’articolo 18 quando è sotto gli occhi di tutti, ad esempio, la necessità di migliorare il servizio di domanda-offerta, di prevedere forme concrete di ricollocazione per gli ultracinquantenni e non da ultimo “il rafforzamento degli strumenti per favorire l’alternanza tra scuola e lavoro” (principio direttivo contenuto nel Jobs Act).
Aggiungo che, al di là di tutte le possibili opinioni che dovranno essere disponibili a sottostare “al vaglio della realtà”, mi pare positivo che finalmente il principio secondo cui il contratto a tempo indeterminato è la “prima” e “più favorita” forma contrattuale, non sia solo affermato o ribadito, come in tante riforme, ma che concretamente lo sforzo sia di accompagnarlo a sconti reali del costo del lavoro e a un sistema di protezione con regole certe, non essenzialmente e sempre centrato sulla valutazione imprevedibile di un giudice.