“Si diventa poveri anche con casa e lavoro” è il fulminante commento del sociologo americano Richard Sennett che fotografa l’Italia di oggi, stretta tra la scarsa occupazione e il crollo del valore degli immobili. Il lavoro continua infatti a rappresentare il problema più avvertito dalle famiglie italiane che ne pagano sempre più le conseguenze in termini di disagio sociale anche a causa di una “reazione a catena” che, data la mancanza di occupazione, porta alla contrazione dei consumi e alla svalutazione degli immobili creando una situazione tale per cui chi cerca di vendere per “fare cassa” non trova compratori.



Al 2013, definito dall’Istat “l’anno nero del lavoro”, segue un 2014 da maglia “grigia” con circa 22 milioni e 400 mila occupati, cioè un tasso di occupazione sostanzialmente stabile, ma con una forza lavoro in espansione. La situazione è destinata a sedimentarsi pericolosamente, almeno fino a quando alcuni nodi non verranno sciolti. Pesano sulle spalle degli italiani il difficile accesso al lavoro e gli elevati tassi di disoccupazione giovanile (710.000 disoccupati tra i 15 e i 24 anni): un triste primato che condividiamo con Spagna (837.000 giovani disoccupati), Regno Unito (713.000) e Francia (654.000).



Le stime più recenti (Confindustria in primis) indicano che nella prossima primavera ci sarà una lieve crescita dell’occupazione che si consoliderà però solo nel 2016. Come dire, tra il male di una occupazione ferma o addirittura in contrazione, meglio una lieve espansione, sempre che, come spesso accade, le previsioni non vengano riviste al ribasso.

Il Governo ha messo in campo interventi finalizzati alla riduzione del cuneo fiscale (se ne parla nella Legge di stabilità) e il cosiddetto Jobs Act. Quest’ultimo ha riproposto e valorizzato la centralità del lavoro a tempo indeterminato nella convinzione che questo possa essere il mezzo per incrementare le opportunità di lavoro. Ma basta guardare oltre i confini di casa nostra per rendersi conto che i mezzi da utilizzare sono ben altri.



Tralasciando il fatto che il Jobs Act richiederà una serie di decreti attuativi che andranno ad aggiungersi, in chissà quali tempi, alle centinaia di decreti in attesa di emanazione ed ereditati addirittura dal Governo Monti, il problema più evidente è che i paesi che hanno registrato tassi di occupazione molto superiori al nostro, che si attesta al 59,8% nel 2013, hanno quote di contratti a tempo determinato maggiori della nostra.

A titolo di esempio si possono citare i Paesi Bassi che, a fronte di una quota di lavoro a tempo determinato pari al 20,6% (13,2% in Italia), registrano nel 2013 un tasso di occupazione pari al 76,5%, e la Germania, che registra un tasso di occupazione del 77,1% con una quota di lavoro a tempo determinato pari al 13,4%.

Insomma, la vera rivoluzione non è nel Jobs Act, né tantomeno nel contratto a tempo indeterminato, ma nella ricerca di una continuità lavorativa che consenta a tutti di poter vivere in modo dignitoso il presente e il futuro. La rivoluzione è in una nuova cultura del mercato del lavoro e soprattutto nella creazione di nuove occasioni di lavoro. Il resto sono solo chiacchiere. 

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