2014 Un emendamento alla legge di stabilità proposto da Marialuisa Gnecchi e approvato da Montecitorio ha cancellato le penalizzazioni per chi va in pensione prima dei 62 anni. Purché ovviamente soddisfi il requisito relativo ai contributi, pari cioè a 41 anni e mezzo per le donne e a 42 anni e mezzo per gli uomini. La penalizzazione era prevista dalla legge Fornero e ora è stata abolita per tutti coloro che matureranno i requisiti entro il 31 dicembre 2017, poi si vedrà. Ne abbiamo parlato con Guido Crosetto, ex sottosegretario alla Difesa ed ex deputato per tre legislature, durante le quali ha presentato diversi disegni di legge sulle pensioni.
È giusto cancellare le penalizzazioni per chi va in pensione prima dei 62 anni?
In Italia abbiamo delle pensioni strutturate in modo contributivo, e in teoria l’età della pensione dovrebbe essere una variabile indipendente con la libertà di scelta lasciata alle singole persone. Quanti si ritirano prima dal lavoro con il sistema contributivo ricevono già un assegno inferiore. Con i calcoli automatici che tengono conto dei versamenti effettuati, la variabile dell’età dovrebbe essere una decisione libera. Sono quindi d’accordo con l’idea di abolire le penalizzazioni per chi va in pensione anticipata prima dei 62 anni.
Qual era quindi la logica delle penalizzazioni previste dalla riforma Fornero?
L’obiettivo della legge Fornero era massimizzare gli interessi dello Stato a medio e lungo termine. Perdere invece il controllo sulle uscite anticipate poteva creare degli scompensi, soprattutto dal punto di vista di cassa. È per questo che erano state introdotte le penalizzazioni.
Il fatto che la possibilità di ritirarsi prima dei 62 anni senza pagare la penalizzazione valga solo fino al 2017 crea una disparità generazionale?
Sì, questa è una classica disparità che continua a pesare sulle spalle delle generazioni più giovani. Il sistema delle pensioni del resto ha già avvantaggiato pesantemente alcune generazioni. Ci sono quelle che sono andate in pensione praticamente al’età che volevano, a volte dopo soli 20 anni di lavoro, beneficiando per di più di un sistema retributivo. Questo macigno pesa sulle spalle delle generazioni successive. È una scelta che non mi stupisce perché il metro utilizzato finora è stato questo, ma si tratta di una scelta profondamente ingiusta.
Lei sarebbe favorevole a un tetto o a un contributo di solidarietà per le pensioni in essere con il sistema retributivo?
Io sono sempre stato favorevole, avevo presentato anche dei disegni di legge che andavano in questa direzione. Le pensioni elevate che hanno anche una base di contributi che li giustifichi vanno preservate. Quelle invece che sono elevate solo grazie alla base retributiva devono essere assolutamente adeguate. Oltre i 5mila euro al mese ritengo che ci debba essere una giustificazione economica, misurabile attraverso i versamenti contributivi.
Come è possibile introdurre un tetto alle pensioni più elevate senza andare incontro a una nuova sentenza della Consulta?
Finora il tetto è stato reso impossibile soprattutto per volontà politica. La ritengo appunto una questione di volontà politica, e non di altro tipo. Del resto non so quanto sia costituzionale l’erogazione di pensioni che sulla base dei contributi non sarebbero dovute. Le leggi in essere sono legittime, ma non tengono conto della situazione economica nella quale trova il Paese. Il ripristino di una maggiore equità sarebbe auspicabile, ma finora al di là delle dichiarazioni questa equità non è stata ritenuta importante, e quindi non ho fiducia nel fatto che il tetto possa passare oggi.
La riforma Dini, che manteneva anche il sistema retributivo, era incostituzionale?
La questione non è la costituzionalità o meno delle leggi vigenti. Io mi riferivo alle pensioni da 4-5mila euro non collegate a un versamento contributivo, che sono legali, legittime e disciplinate da una legge, ma vorrei vedere quanto siano costituzionali dal punto di vista del principio di equità tra i cittadini. La riforma Dini ha creato uno spartiacque che non è incostituzionale, ma è pur sempre assurdo e inconcepibile per le giovani generazioni.
La riforma del 1995 fu quindi un errore?
A ben vedere la responsabilità non fu dell’allora governo Dini, che non aveva altre possibilità in quanto bisognava fissare un limite per il retributivo e lo fissò, quindi quantomeno da questo punto di vista la riforma delle pensioni del 1995 è stata molto positiva. Ma è stato al momento della riforma Fornero che bisognava fare un ulteriore passo avanti e abolire queste disparità. Non è un caso che due persone che fanno lo stesso lavoro, a seconda dell’anno in cui sono nate potrebbero trovarsi con pensioni rispettivamente da 2mila, 1.200 e 600 euro. E magari quello che prende 2mila euro si è ritirato dal lavoro anni prima degli altri due. Un ragionamento costituzionale su questi aspetti sarebbe positivo.
(Pietro Vernizzi)