Con i decreti del 24 dicembre ha preso il via l’attuazione del Jobs Act. Le valutazioni che hanno seguito la divulgazione del testo hanno principalmente riguardato la difesa delle posizioni che i diversi schieramenti avevano già sostenuto durante il dibattito parlamentare e che intendono riproporre nel dibattito nelle commissioni, dove è previsto il parere consultivo dall’iter del decreto.



Il fulcro delle polemiche riguarda ancora l’articolo 18 e i casi di indennità per licenziamenti individuali e collettivi. Cgil e Uil minacciano nuovi scioperi e le sinistre parlamentari si propongono di incidere nella discussione per escludere i licenziamenti collettivi ed eventualmente poi ricorrere alla Corte costituzionale per eccesso di delega o addirittura seguire la via del referendum abrogativo (come se il referendum sulla scala mobile non avesse lasciato nessun insegnamento).



A questi facilmente prevedibili temi di polemica, si è aggiunto quello dei pubblici dipendenti che dovrebbero essere esclusi dalle nuove norme, mentre per molti esponenti della maggioranza era chiaro l’intendimento di estendere anche alla Pa la nuova normativa sul lavoro. Dato che la riforma vuole essere una “rivoluzione copernicana” del lavoro nel nostro Paese, escludere tutto il settore pubblico suonerebbe come una sconfessione degli obiettivi generali. Sarebbe inoltre un passo indietro anche per la riforma della Pa che vede nella mobilità e nella riorganizzazione del personale con l’uso di strumenti privatistici il passaggio per restituire produttività ed efficienza ai servizi pubblici.



Vale per ora l’indicazione del presidente del Consiglio che lascia facoltà alle commissioni parlamentari di decidere su questo punto. Certo, un’esclusione sarebbe una concessione alla cultura del posto di lavoro contro il passaggio alla cultura della occupabilità. Mi pare in fondo questo il perno intorno a cui i diversi provvedimenti attuativi che determineranno l’applicazione del Jobs Act dovranno essere valutati in termini di coerenza ed efficacia.

La nuova legislazione non si pone come una norma che vuole ampliare gli spazi ai licenziamenti e limitare le forme contrattuali alle assunzioni: vuole gettare le basi per un sistema di welfare del lavoro come in Italia non vi è mai stato e che per poter funzionare deve avere basi certe per i processi di mobilità nel mercato del lavoro sia in ingresso che in uscita. Solo su questa base è possibile costruire un sistema di servizi che supportino l’occupabilità di coloro che cercano lavoro. Creare cioè una rete di agenzie pubbliche e private che si “prendano in carico” i disoccupati e, attraverso percorsi personalizzati, programmino nuovi sbocchi lavorativi.

A sostegno di questi percorsi uno dei decreti approvati prevede il nuovo sostegno al reddito (Aspi) esteso a tutti i lavoratori in difficoltà per 24 mesi e ampliato (con copertura minore) anche a chi ha contratti coordinati o a progetto. Si pongono così le basi per intervenire a correggere il dualismo che ha caratterizzato lungamente il nostro mercato del lavoro fra garantiti e non garantiti. 

Il dato principale era assicurato dallo scaricare sulle imprese anche compiti di welfare che non competevano loro. La scelta di usare solo politiche passive per rispondere alle crisi ha fatto sì che solo i lavoratori delle imprese medio-grandi abbiano goduto di ammortizzatori sociali e lasciato senza tutele chi lavorava nelle Pmi o con contratti temporanei. Puntare a costruire un sistema di tutele valido per ogni lavoratore non è estendere a tutti le distorsioni del passato ma avviare un sistema di flexsicurity che tuteli nel mercato e non nel posto di lavoro. La distorsione principale è che, a parità di spesa sociale complessiva per il lavoro, nel nostro Paese si spendono circa 60 euro per disoccupato per servizi e politiche attive del lavoro contro i 1.500 euro della Francia e i 1.700 euro della Germania. Alla difesa del posto di una minoranza finanziata con i soldi di tutti si sono sacrificate le tutele universali che possono essere assicurate da un nuovo sistema di servizi al lavoro.

Se perciò il giudizio di insieme di questi primi provvedimenti non può che essere positivo restano i dubbi su come la nuova norma sui contratti a tutele crescenti riuscirà a estendersi a quei contratti flessibili che sono serviti a sviluppare nuovi settori. Posti legati strettamente a nuove forme nei rapporti di lavoro per sviluppare servizi innovativi o legati a nuovi processi produttivi. La crescita delle Partite Iva ha sopperito alla rigidità dei contratti di lavoro subordinato, ma non può essere l’unica risposta. Il lavoro interinale stesso non può assicurare in tutti i casi la flessibilità ed economicità richiesta dai cicli produttivi.

I futuri provvedimenti dovranno tenere conto di queste esigenze che il mercato pone. Se l’obiettivo è dare a tutti i lavoratori le stesse tutele sul mercato del lavoro, dovrà essere definito un nuovo Statuto dei lavori per definire tutele, diritti e responsabilità del lavoro così come determinato dalle trasformazioni economiche avvenute.

La sfida riguarda soprattutto i sindacati dei lavoratori. Dopo questa fase di mera contrapposizione ideologica dovrà tornare una riflessione realistica. Per creare nuova occupazione non bastano le regole del mercato del lavoro. Vi è bisogno di una politica che rilanci la domanda di consumi e investimenti. Ma ciò richiede un ritorno alla contrattazione che sappia puntare sulla produttività e che sia in grado di decentrarsi, articolarsi per territori e per settori per sostenere un nuovo sviluppo che premi la capacità di creare lavoro.

Le nuove tutele possono sostenere questa nuova fase di iniziativa sindacale se si archiviano le ideologie del passato e si pone al centro dell’azione la crescita economica.

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