‘. Buona la ricetta di riforma del lavoro contenuta nel Jobs Act, che ieri ha ricevuto il via libera definitivo dal Senato. Buona perché darà vita a un mercato del lavoro con più tutele (ai lavoratori) e maggiore competitività (per le imprese). Ovvero, buona occupazione e costo del lavoro ridotto. Due gli ingredienti principali (in un provvedimento pieno di novità): abrogazione delle collaborazioni (co.co.co.) e cancellazione (quasi completa) dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
In soffitta le co.co.co. La prima novità metterà in soffitta co.co.co., mini co.co.co. e co.co.pro.. Scompariranno i vari contratti con cui oggi, dopo anni di riforme, vengono declinate le collaborazioni coordinate e continuative che, per anni, hanno mostrato il volto della flessibilità e dell’occupazione senza tutele (non a torto). Non hanno mai avuto definizione normativa e, originariamente, avevano un campo di applicazione limitato, riguardando soltanto le “attività di natura intrinsecamente artistica o professionale”.
Nel 2001 – è ministro del Lavoro Cesare Salvi del governo Amato II – arriva la prima riforma, che darà vita ai problemi di oggi: il collegato fiscale alla Finanziaria 2001 (art. 34 dlgs n. 342/2000) elimina il requisito “artistico professionale”, con conseguente estensione delle collaborazioni alle attività manuali e operative. È la deriva: muratori, operai, camerieri si trasformano in professionisti con scarse tutele retributive e contributive. Dov’era, allora, il Sindacato? E dov’era l’ala “sinistra” del Pd? Perché non ci furono scioperi generali, allora, quando venne così ipotecato il futuro di tanti giovani a un’occupazione di serie B, con scarse tutele e senza articolo 18?
Un freno al problema è posto dalla riforma Biagi, nel settembre del 2003 (dlgs n. 276/2003), con l’introduzione del contratto di lavoro a progetto al fine proprio di proteggere i lavoratori e di limitare l’utilizzo improprio delle co.co.co.. Infine, la riforma Fornero (legge n. 92/2012) ha tirato l’ultimo freno a mano con l’introduzione di “presunzioni”, assolute e relative, allo scopo di stanare le finte collaborazioni mono-committenti e con Partita Iva.
Ma stavolta l’addio dovrebbe finalmente essere definitivo, perché si dispone il “superamento” delle collaborazioni coordinate e continuative. E succederà che l’assunzione tipo avverrà con contratto subordinato (cioè dipendente) il quale, a differenza delle co.co.co., dà al lavoratore il diritto pieno a una pensione e a tante altre tutele dalla malattia alle ferie, dalla maternità allo sciopero! Dunque passare da co.co.co. a dipendente sarà un miglioramento assai avvertito dai lavoratori e, in particolare, da quelli che oggi sono ai margini del mercato del lavoro. Eppure il Sindacato storce il naso, fermandosi al dito (dell’abrogazione dell’articolo 18) senza accorgersi della luna (del miglioramento delle condizioni di lavoro per tanti precari). Segno evidente che non colloquia con questi lavoratori. Perché, altrimenti, avrebbe saputo dalla loro stessa bocca (i co.co.pro. sono più di 700 mila; i parasubordinati, comprendendo anche le Partite Iva, ammontano a oltre 1 milione) che conviene rinunciare all’articolo 18 in cambio di diritti pieni sul lavoro, quali retribuzione, pensione, malattia, maternità, ferie, e via dicendo.
In soffitta (quasi) l’Art. 18 E arriviamo alla seconda novità: l’addio all’articolo 18 nei contratti a tutela crescente. Scomparirà dai licenziamenti per giusta causa e per giustificato motivo oggettivo, mentre sopravvivrà per casi specifici di licenziamento disciplinare che saranno previsti dalla legge. Resta confermata, inoltre, la disciplina di nullità per i licenziamenti discriminatori (e diversamente non poteva avvenire: proprio perché nulli, presuppongono sempre e comunque la reintegrazione perché è come se il licenziamento non fosse mai esistito).
Con l’abrogazione dell’articolo 18, ovviamente, non ci sarà più quella stabilità del posto di lavoro che c’è stata fino a oggi (fino a prima della crisi, perché se l’azienda fallisce non c’è articolo 18 che tenga per non perdere il posto di lavoro!). Una stabilità che è stata e resta prerogativa di pochi fortunati pagata al prezzo di tanti che si accontentano giocoforza di un’occupazione precaria in durata e soprattutto in tutele. Qualcuno obietterà: “d’ora in avanti sarà impossibile avere un mutuo!”, conoscendo bene il vizio delle banche di essere restie a fare prestito a chi non sia assunto con contratto a tempo indeterminato. È vero. Però – siamo onesti! – questo non è un problema creato dal diritto del lavoro. È piuttosto una “ingiustizia” del sistema creditizio e finanziario. Cioè delle banche che, grazie proprio all’articolo 18, si sono cullate per anni sul sofà della certezza dello stipendio per recuperare i finanziamenti, senza un minimo sforzo e senza correre alcun rischio imprenditoriale. Pazienza per loro: è arrivato il momento di togliere dal groppone delle aziende questo “costo” indiretto della serenità delle banche. E per le banche sarà l’ora di cominciare a fare gli imprenditori del credito.
Si potrà ancora dire: “sarà più facile trovarsi senza lavoro, perché l’azienda potrà licenziare!”. Questo non è detto, perché il diritto alla “stabilità” potrà sempre essere pattuito nel proprio contratto di assunzione; e se uno è proprio bravo sul lavoro, non troverà difficoltà a pattuirlo con l’azienda, anche se non è un pilota di aeroplani! E poi, se si perde il lavoro, si potrà contare sull’indennità di disoccupazione (Aspi) che dura dagli 8 ai 14 mesi (dai 10 a 16 mesi l’anno prossimo), più un periodo aggiuntivo che sarà garantito dai nuovi Fondi di solidarietà; insomma, non mancherà il sostegno economico per il tempo necessario a trovarsi un nuovo lavoro. Senza contare che, se il licenziamento dovesse risultare illegittimo per un capriccio dell’impresa, al lavoratore verrà riconosciuto anche un risarcimento tra 6 e 36 mensilità di paga.
Insomma la ricetta del Jobs Act è buona perché fa più certa e più viva la “forza lavoro”. Che non sarà più un’incognita, né forza antagonista o, peggio, indifferente alle sorti dell’azienda: datore di lavoro e lavoratori staranno assieme sulla stessa barca (l’azienda), a remare per assicurarsi il pane.