Il mercato del lavoro italiano soffre soprattutto di uno squilibrio. Mentre continuiamo a commentare i dati fornitici trimestralmente sulla disoccupazione, abbiamo perso di vista il tasso di occupazione complessivo che è calato nel corso della crisi, ma ci dice di più, per decidere le scelte politiche, di quanto si ritiene normalmente. Non a caso, gli obiettivi europei per Stato e per target specifici fanno riferimento al tasso di occupazione e non ad altri indicatori. I quali sono presi in considerazione a supporto degli obiettivi perseguiti, perché ci spiegano i target particolarmente svantaggiati o difficoltà specifiche territoriali o di genere.



Il nostro tasso di occupazione complessivo dovrebbe raggiungere il 70% per indicare che tutti coloro che sono in età lavorativa hanno trovato un’occupazione. Non solo complessivamente siamo ancora distanti da questo obiettivo (è oggi al 58%), ma siamo arretrati di qualche punto nel corso degli ultimi anni. A quello nazionale si devono aggiungere alcuni dati specifici che ci indicano il permanere di squilibri territoriali, di sesso e di età.



In particolare, per quanto riguarda il tasso di occupazione femminile, fissato a livello europeo al 60%, è stato raggiunto negli anni passati solo in Emilia Romagna, Trentino e parte della Lombardia. Oggi è tornato ovunque sotto tale soglia e resta particolarmente basso in tutto il mezzogiorno con dati fra il 30% e il 40%. Al di là delle donne che si dichiarano disoccupate, è questo dato che ci deve far riflettere su come l’economia di quelle zone non porta nel mercato del lavoro la stragrande maggioranza delle cittadine in età lavorativa. Indice, questo, di costi sociali che pesano sulle famiglie e sul sistema di welfare.



Lo squilibrio del tasso di occupazione femminile è solo in parte attenuato se guardiamo le forze di lavoro nel complesso. Il tasso di occupazione nel mezzogiorno è di oltre 10 punti più basso delle altre zone del Paese. La crisi è iniziata nel 2005, ossia ben prima degli effetti della crisi internazionale che ha poi contribuito ad accentuare gli squilibri esistenti. Nel sud si inizia a lavorare più tardi e si finisce dopo, con squilibri pesanti per l’occupazione giovanile, la costituzione dei nuclei famigliari, il perdurare di un’economia grigia.

Vi è infine uno squilibrio per classi di età. Il tasso di occupazione giovanile è tornato a essere quello dei primi anni ‘90. Il rapporto scuola-lavoro e l’assenza di contratti di inserimento lavorativo hanno penalizzato fortemente questa fascia di età. Ma anche la fascia di età più alta non trova sbocchi. L’allungarsi dell’età pensionabile richiede una maggiore permanenza sul mercato del lavoro. Il tasso di occupazione oltre i 50 anni resta invece lontano dal 60% che è ritenuto il dato di equilibrio.

Questa lunga digressione sugli squilibri che caratterizzano il nostro mercato del lavoro e che la crisi ha reso ancora più evidenti, è per valutare se le iniziative messe in campo nel corso di questi mesi sono efficaci per rilanciare il tasso di occupazione. Mi pare che i risultati degli ultimi due trimestri rilevati dal ministero del Lavoro vadano in questa direzione. E sono dati reali, il risultato delle elaborazioni relative alle comunicazioni obbligatorie, e registrano quindi i movimenti oggettivamente avvenuti sul mercato del lavoro.

Il saldo entrati/usciti è, anche se di poco, positivo. Quindi il tasso di occupazione complessivo torna a salire. Salgono anche i disoccupati, ma perché la probabilità di trovare occupazione torna a crescere. Crescono i contratti a tempo determinato e quelli di apprendistato. È l’effetto delle prime misure introdotte dal ministro Poletti e indicano che le imprese hanno usato gli strumenti offerti per nuove assunzioni. In particolare, l’apprendistato indica che vi è una nuova occupazione giovanile.

La manovra sulle leggi del lavoro nel suo complesso avrà un effetto ancora maggiore. La ragione è abbastanza semplice. Più forme contrattuali, con piene tutele dei lavoratori, permettono un più facile incontro fra domanda e offerta, facilitando sia la mobilità nel mercato, sia le nuove entrate nel lavoro. Non è un caso che i paesi con il maggiore tasso di occupazione femminile e di anziani sono quelli con la maggiore diffusione di contratti part-time. Questi facilitano una partecipazione flessibile al lavoro che è richiesta da molti settori produttivi, ma anche da molti cittadini che non cercano un lavoro a tempo pieno. È l’assenza di queste forme contrattuali che porta al diffondersi di forme precarie o spurie di contratti, fino al permanere di una quota importante di lavoro nero.

Tornare a porsi il problema di fare crescere il tasso di occupazione è quindi il perno delle scelte sia nelle politiche del lavoro che in quelle economiche. Una politica espansiva è necessaria per rilanciare la domanda di lavoro. Ma non vedere che in piena crisi vi sono circa un milione di occasioni di lavoro non coperte per assenze di servizi per il lavoro efficaci e perché non si è fatto tutto il possibile per facilitare l’incontro fra domanda e offerta di lavoro è uno spreco di risorse umane ed economiche che non possiamo più permetterci.

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