«Su una scelta totalizzante come il contratto unico di Renzi il mio giudizio è molto negativo. Quello del premier è un puro esercizio teorico-intellettuale, che non tiene affatto conto della realtà del mondo del lavoro in Italia». È il duro commento di Michele Tiraboschi, professore di Diritto del lavoro all’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, sull’ipotesi di riforma del mercato del lavoro cui sta lavorando il presidente del consiglio incaricato, Matteo Renzi. La proposta del premier è un contratto a tempo indeterminato caratterizzato da tutele crescenti. Durante la fase di inserimento della durata di tre anni, l’obbligo di reintegro previsto dall’articolo 18 sarebbe sostituito da un’indennità proporzionale all’anzianità aziendale.
Professor Tiraboschi, che cosa ne pensa del contratto a tutele crescenti proposto da Renzi?
Già nel 2012 l’ex ministro Fornero aveva ipotizzato un contratto prevalente a tempo indeterminato, riducendo le tipologie flessibili o temporanee. Il contatto unico a tutele progressive è una soluzione che, come già abbiamo verificato, non porta ad alcun effetto. È del resto difficile, se non irrealistico, pensare di comprimere la multiforme realtà del lavoro e il suo dinamismo attraverso un unico contratto.
Ritiene che i diversi settori abbiano bisogno di forme contrattuali diverse?
Sì. L’agricoltura, il turismo e l’edilizia si basano su lavoro stagionale, intermittenza e saltuarietà. Sono quindi realtà profondamente differenti da settori come il manifatturiero e l’alta tecnologia, che reclutano professionisti per assumerli come dipendenti. L’idea di ingabbiare il mondo del lavoro come vuole fare Renzi non c’è stata neppure in epoca di pieno fordismo e taylorismo, quando forse un unico modello contrattuale standardizzato poteva ancora funzionare.
Come valuta in particolare l’idea delle tutele progressive?
Un’ipotesi di contratto a tempo indeterminato a tutele progressive esiste già ed è l’apprendistato, che non è coperto dall’obbligo di reintegro previsto dall’articolo 18 e il cui contenuto formativo si sviluppa in un triennio. Su una scelta totalizzante come il contratto unico di Renzi il mio giudizio è molto negativo, perché si tratta di una soluzione che non corrisponde agli attuali fabbisogni del mercato del lavoro.
Ritiene che il Jobs Act di Renzi possa dare risposte per quanto riguarda la flessibilità in entrata?
Quello del contratto unico è un esercizio puramente teorico-intellettuale. Quelle che oggi assumono sono imprese di piccole dimensioni, con meno di 15 dipendenti, per i quali già non vale l’articolo 18. Questa riforma non toccherebbe la stragrande maggioranza delle imprese italiane, per le quali già non si applica l’obbligo di reintegro. A restare escluso dal Jobs Act sarebbe inoltre un quarto dei lavoratori, impiegati nell’economia sommersa.
Che cosa ne pensa delle proposte di Renzi per quanto riguarda il precariato?
Quello del precariato è un tema male impostato e che appartiene al secolo scorso. Le imprese non assumono perché manca il raccordo tra mondo del lavoro da un lato e scuola e università dall’altro. E se si vogliono realizzare le riforme del lavoro, il vero tema riguarda competenze, professionalità, mestieri, reciproca adattabilità, convenienze reciproche tra imprese e lavoratori. Si gioca quindi soprattutto a livello di formazione e integrazione tra scuola, università e mercato del lavoro.
L’articolo 18 è davvero un ostacolo per chi vuole assumere?
Dire che non si assume perché c’è l’articolo 18 forse può valere per qualche grande azienda, ma non per la stragrande maggioranza delle Pmi. Le grandi imprese oggi stanno chiudendo stabilimenti e riducendo gli organici, e non riceverebbero alcun vantaggio da questa riforma. Quando un’azienda deve decidere se assumere un giovane o ricorrere a uno stage o a un contratto occasionale, guarda innanzitutto al peso contributivo. Uno stagista costa tra i 300 e i 500 euro, mentre un dipendente costa almeno 1000-1.200 euro di retribuzione netta che diventano 2.000-2.400 euro lordi per il peso del cuneo fiscale.
In che modo si dovrebbe intervenire?
Il vero tema non è quello delle regole ma del costo del lavoro, delle competenze, della formazione. Le aziende oggi reclutano giovani attraverso i tirocini formativi, che sono appena stati riformati prevedendo una “paghetta” da 300-500 euro, che per le imprese è diventata la legittimazione per l’utilizzo di forme di lavoro senza contratto.
(Pietro Vernizzi)