Il D-Day di Matteo Renzi è arrivato, ma per il Jobs Act bisogna ripassare più avanti. Il lavoro, soprattutto dei giovani, rimane una priorità del governo presieduto dal “garzoncello scherzoso” che un destino, veramente cinico e baro, ha furtivamente introdotto a Palazzo Chigi. Evidentemente, lo avevano consigliato di non perdere tempo con le proposte di merito, ma di “volare alto”, di colpire la fantasia degli italiani, di parlare al loro cuore, che – come scriveva Blaise Pascal – “ha delle ragioni che la ragione non conosce”. Qualcuno gli avrà anche fatto ascoltare il memorabile discorso che John F. Kennedy pronunciò il giorno del suo insediamento, il 20 gennaio del 1960, aprendo orizzonti nuovi a generazioni di americani – come lui disse – “nati in questo secolo”. Ma a Matteo è riuscito soltanto di improvvisare un intervento da presidente dell’Agesci (la meritoria associazione dei boy scouts). Si vede che anche nel caso degli scout vale la regola riferita al Corpo dei Bersaglieri: chi è bersagliere a vent’anni rimane tale per tutta la vita.



Eppure, dal momento che il premier ha parlato un’ora e dieci minuti, è nostro dovere sforzarci di interpretare quanto dobbiamo attenderci nei prossimi mesi dal “nuovo che avanza” impetuosamente. Renzi – in questo dobbiamo dargli ragione – ha lasciato intendere che non esiste la pietra filosofale normativa che crea posti di lavoro a tempo indeterminato e che quindi bisogna che siano le aziende ad assumere e, perché ciò sia possibile, occorre favorire la crescita, invogliando innanzitutto a investire in Italia. Ognuno di noi è libero di pensare come si possa favorire questa propensione. Per ora il premier si è limitato a prendere di mira la burocrazia, dimenticando – da (ex?) sindaco – che a scoraggiare gli investimenti stranieri non sono soltanto una legislazione farraginosa, una giustizia borbonica, un costo dell’energia superiore a quello di altri paesi, un cuneo fiscale e contributivo che produce nel medesimo tempo un costo del lavoro elevato e buste paga modeste e che è di ostacolo alle assunzioni. Sono anche le burocrazie delle Regioni e degli Enti locali che si mettono di traverso – con le motivazioni più svariate, quasi sempre a sfondo ecologico – quando si chiede di aprire nuovi capannoni nei loro territori.



Il governo, ha detto il premier con molta forza, intende sostenere il mondo dell’impresa, innanzitutto facendo fino in fondo il suo dovere di debitore. Come farà a saldare i crediti (si parla di una cinquantina di miliardi, se sottraiamo quanto già stanziato e in via di erogazione ai 90 miliardi complessivi dovuti secondo la stima della Banca d’Italia)? Semplice: li sborserà la Cassa depositi e prestiti e in più questa istituzione aprirà i cordoni della borsa a favore del finanziamento delle piccole imprese. Prima domanda: ma perché nessuno ci ha pensato prima? Seconda domanda: ma la Cassa depositi e prestiti stampa forse moneta nei sotterranei?



No. Le sue risorse vengono in gran parte dal risparmio postale, oltre che da titoli emessi in proprio (che comunque devono essere rimborsati). Saldare i debiti verso le imprese è certamente una buona politica. Ma perché farlo con i risparmi depositati nei libretti postali? Come e quando avverrà la loro restituzione, dal momento che le imprese quelle risorse vorranno giustamente tenersele? Tralasciamo la questione delle risorse da erogare alle piccole imprese per il tramite del fondo strategico, visto che, nelle sue comunicazioni Renzi non ci ha fornito alcun parametro. Immaginiamo però che verranno in ballo somme significative.

Passiamo, quindi, all’altra promessa-boom: il taglio a due cifre del cuneo. Renzi si riferiva al valore assoluto o a una percentuale? Se si tratta del primo caso (quindi di circa 10 miliardi almeno) una promessa più conveniente (un taglio da 19 miliardi a regime) l’aveva già fatta Enrico Letta dalla “palude”. Se invece siamo a ragionare di aliquote percentuali è bene far notare che ogni punto vale un importo compreso tra 2,7 e 3 miliardi. Poiché per avere una riduzione di due cifre bisogna arrivare almeno al 10%, il conto finale è presto fatto: tra i 27 e i 30 miliardi.

In materia specifica di lavoro c’è poi la storia del trattamento universalistico di disoccupazione. La proposta è avvolta da una densa cortina degna di una fumeria d’oppio. È l’idea contenuta nell’anticipazione del Jobs Act? Se è così ci basti ricordare che l’ex ministro Elsa Fornero aveva ipotizzato un onere di 30 miliardi.

Come soleva dire Totò è la somma a fare il totale. Siamo arrivati a un centinaio di miliardi da impegnare in pochi mesi. Auguri. Si vede che Matteo Renzi ha trovato quel vaso ricolmo d’oro che, secondo la leggenda, è sepolto laddove finisce l’arcobaleno. 

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