Dopo aver chiuso in rosso il 2013 in flessione di 14,4 miliardi di euro, alla fine di quest’anno l’Inps prevede un ulteriore disavanzo di 12 miliardi. È quanto si legge nel bilancio di previsione dell’istituto. In realtà, il documento contiene altre note dolenti, come l’erosione del patrimonio dell’ente che negli ultimi quattro anni sarebbe sceso da 40 a 4,5 miliardi. Per contenere la perdita, il governo è intervenuto con la Legge di stabilità cancellando passività patrimoniali accumulate dall’ex Inpdap (oggi confluita nell’Inps) per 25,1 miliardi di euro. Si cominciano intanto a vedere i primi effetti della riforma Fornero. «C’è stato un calo del 43% – sostiene in questa intervista Cesare Damiano, ex ministro del Welfare e presidente della commissione Lavoro della Camera -. Sotto il profilo contabile c’è stato un dimezzamento degli assegni liquidati. Sotto il profilo sociale invece le conseguenze sono state devastanti». E nonostante le riforme, la spesa pensionistica continua a salire. Nei prossimi anni la situazione rimarrà pressoché invariata: si prevede che nel 2015 il passivo ammonterà a 10,6 miliardi di euro e l’anno successivo a 10,4.
Senza l’intervento dello Stato il nostro sistema pensionistico non sta in piedi. Il disavanzo dell’Inps aumenta di anno in anno…
C’è una nota di bilancio dell’Inps nella quale si dice che il governo ha stanziato anticipazioni per 25,1 miliardi che proteggono il patrimonio Inps dall’erosione determinata dall’incorporazione dell’Inpdap e che rendono il sistema previdenziale perfettamente in equilibrio. Questo trasferimento dallo Stato all’Inps per risanare i conti non è una novità. La novità è piuttosto un’altra.
Quale?
Il buco che deriva dall’incorporazione dell’Inpdap, e che ora viene ripianato, dipende dalla diversa contabilità tra Inps e Inpdap.
In cosa differiscono i due sistemi?
Per quanto riguarda l’Inps, si tratta di un accantonamento mensile dei contributi versati dalle aziende, mentre per quanto riguarda l’Inpdap – ovvero le pensioni pubbliche – la liquidazione delle pensioni avviene di volta in volta, senza accantonamento. In pratica è una partita di giro interna alla contabilità dello Stato. Questa differente impostazione contabile crea questo buco momentaneo. Mi pare però che dall’Inps giungano parole rassicuranti sullo stato di salute dell’istituto. Avendo sott’occhio i conti, non mi pare si debba lanciare un allarme.
Cosa può dirci della drastica riduzione del numero di pensioni liquidate, anche a seguito del taglio operato dalla riforma Fornero?
L’anzianità è in calo del 43%. Sotto il profilo contabile c’è stato un dimezzamento degli assegni liquidati, che sono passati da 1.146.000 del 2012 a circa 649mila nel 2013. Questo, ripeto, sotto il profilo “contabile”. Sotto il profilo sociale, lascio a lei immaginare le conseguenze di una simile situazione. Devastante! Io non sono d’accordo sul modo con cui è stata fatta la riforma Fornero, perché non c’è gradualità.
Anche nel medio-lungo periodo non c‘è da temere per la tenuta dei conti dell’Inps?
Spero proprio di no, dopo tutte le riforme che abbiamo fatto, che si pongono all’avanguardia in Europa, a partire dalla riforma Dini del 1995. No, non credo ci sia un rischio per l’Inps; non deve esserci nessun rischio per le pensioni.
Nel documento dell’Inps si dice anche che a sostenere il grosso delle uscite dell’istituto sono i parasubordinati e co.co.co. In pratica quelli che domani avranno pensioni da fame oggi la stanno garantendo agli ultimi privilegiati del posto fisso. E così?
I parasubordinati sono persone che ai tempi del governo Berlusconi avevano una franchigia di sei anni che impediva loro, nel caso di un passaggio a altro fondo, di utilizzare le risorse accantonate per meno di sei anni. Quindi le hanno perdute. Come ministro del Lavoro ho portato quella franchigia a tre anni, provvedendo alle relative coperture. Successivamente il governo Monti l’ha portata a zero.
Quindi?
Attualmente il fondo dei parasubordinati – la gestione separata dell’Inps – accumula risorse che non vengono spese per il semplice fatto che si tratta di persone giovani che andranno in pensione parecchio più in là. Ma quando queste persone andranno in pensione bisognerà restituirgli i loro soldi. Considerando un lavoratore a cui si applica la regola introdotta da Dini nel ‘96, aggiungiamo 40 anni, si arriva al 2036. È un problema che sicuramente si porrà dal 2036 in poi. Per il momento è una partita di giro interna all’istituto. Vale a dire: ci sono fondi che incassano senza spendere e ci sono fondi che spendono senza incassare il necessario.
La maggior parte dei fondi previdenziali è in perdita…
Mentre i lavoratori industriali hanno – o avevano – i conti in pareggio, i lavoratori autonomi – artigiani, commercianti – questo pareggio non ce l’hanno. Ancor meno i lavoratori agricoli che incassano più di quello che versano. Ma sono questioni che ci trasciniamo da quarant’anni, alle quali si è posto parzialmente rimedio con tutte le riforme che sono state fatte. Prima del ‘95 c’erano i baby pensionati, le pensioni di anzianità a 35 anni, ecc. C’era una differenza sostanziale tra dipendente pubblico e privato. Tutto questo è stato eliminato nei lontani anni ‘90.
Dopo queste rassicurazioni immagino che lei continui a sostenere la proposta della flessibilità in uscita. È così?
Continuo a sostenere la flessibilità in uscita anche se costa. Con la drastica, anzi draconiana riforma Fornero, tra il 2020 e il 2060 dalle pensioni verranno drenate risorse superiori ai 300 miliardi di euro. Una cifra imponente di trasferimento da stato sociale a debito. E io penso che possa essere restituita ai pensionati in termini di flessibilità: se di quei 300 miliardi gliene portiamo via uno, non cambia niente. In questo modo faremmo anche giustizia sociale.