Traendo spunto dalla vicenda Electrolux chiediamo al Professor Antonio Pileggi, ordinario di Diritto del Lavoro dell’Università di Roma Tor Vergata, di chiarirci quale sia la posizione e il ruolo del Diritto del lavoro nei confronti delle imprese che minacciano di delocalizzare o di non investire in Italia, chiudendo gli stabilimenti e licenziando i lavoratori, se i sindacati non accettano tagli retributivi e condizioni di lavoro peggiorative.
Innanzitutto, il Diritto del lavoro tollera quello che alcuni sindacati definiscono un “ricatto occupazionale”?
“Ricatto occupazionale” è un’espressione forte, che ogni tanto ritorna, e ci riporta agli albori del Diritto del lavoro che, storicamente, nasce per combattere quel “ricatto occupazionale” dell’imprenditore che provoca la concorrenza al ribasso tra lavoratori, attraverso lo strumento dell’inderogabilità delle norme di legge e di contratto collettivo che fissano i minimi di trattamento economico-normativo e l’indisponibilità dei diritti che ne derivano. Anche volendo, non si può lavorare a condizioni peggiori di quelle previste dalla legge e dal contratto collettivo.
Anche la minaccia di chiudere baracca e burattini e di delocalizzare se i lavoratori non si decurtano la retribuzione, le pause, le ferie e via dicendo, è un ricatto occupazionale bello e buono. O no?
Diciamo che, in un certo senso, si ripropone in chiave moderna, nell’era della globalizzazione, l’arcaica logica del prendere o lasciare: “prendere” il lavoro a certe condizioni o “lasciare” il lavoro ad altri lavoratori disposti ad accettarle. Nel nostro caso, lo si lascia ai lavoratori del Paese in cui si intende delocalizzare. Ma non si può generalizzare e parlare sempre e comunque di “ricatto occupazionale”.
Cosa intende dire?
Che può trattarsi di un bieco ricatto padronale o, al contrario, di un estremo, disperato e meritorio tentativo di salvare l’impresa e i posti di lavoro, superando mille difficoltà (fisco, burocrazia, inefficienza dei servizi, corruzione, delinquenza, mancanza di credito). Bisogna vedere caso per caso. Magari (quella del mar Nero, del mar Baltico o del mar della Cina) potrebbe essere davvero l’ultima spiaggia per un’impresa che rischia di chiudere. Oppure, la minaccia della delocalizzazione è un bluff e l’impresa approfitta del momento giusto (della crisi dell’economia, ma anche della crisi della giustizia del lavoro), per dettare le proprie condizioni, incoraggiata da precedenti illustri.
Ma il Diritto del lavoro argina anche questo moderno “ricatto occupazionale” (ormai chiamiamolo così) dell’era della globalizzazione?
No. Il Diritto del lavoro “nazionale” ha efficacia, per l’appunto, nazionale, non travalica i confini nazionali e non segue come un’ombra l’imprenditore che, così, delocalizzando, se ne libera, e che anzi delocalizza proprio per liberarsene. Dunque, il diritto del lavoro impedisce la concorrenza al ribasso tra lavoratori, di qualsiasi nazionalità, che lavorano in Italia, ma è impotente di fronte aldumping sociale determinato dalla diversità della legislazione del lavoro, e dei livelli retributivi, dei vari paesi, anche se, eventualmente, appartenenti a un medesimo ordinamento comunitario e nonostante le direttive di armonizzazione.
E del resto l’impresa è libera di delocalizzare dove crede, anche se in Italia licenzia tutti, lasciando il deserto, o no?
Eh già. Se la delocalizzazione è una minaccia, è, per così dire, la “minaccia di far valere un diritto”. “L’impresa deve essere libera di scegliere i luoghi di produzione in base agli specifici modelli economici delle imprese e all’evoluzione delle condizioni di mercato”, ripete la Commissione europea. E così l’impresa può anche scegliere i luoghi di produzione dove si applica un Diritto del lavoro più a buon mercato del nostro. Anche se ben più complesse sono le ragioni che inducono le imprese a delocalizzare o a non investire nel nostro Paese, e, quanto al costo del lavoro, ciò che lo rende insostenibile non è il prezzo pagato al lavoratore perché conduca un’esistenza libera e dignitosa per il maggior numero di giorni di un mese alla fine del quale non sempre arriva, ma quello pagato, in tasse e contributi, a uno Stato tanto vorace quanto inefficiente.
Ma cosa succede se il sindacato cede al “ricatto” della delocalizzazione: il Diritto del lavoro se, come diceva prima, si basa sulla norma inderogabile da cui sorgono diritti indisponibili, consente di tagliare le retribuzioni e di peggiorare le condizioni di lavoro?
Il Diritto del lavoro, nella crisi, è molto cambiato, così come sono cambiati, complessivamente, i giudici del lavoro. La norma inderogabile è sempre meno inderogabile e i diritti indisponibili sempre meno indisponibili. La reintegrazione nel posto di lavoro non è più la tutela in caso di licenziamento illegittimo. La madre di tutte le tutele (l’art. 18) ha abbandonato la prole ed è stata esodata dalla Fornero. E lo spettro della delocalizzazione fa più paura se è molto più facile licenziare e se il posto non è più garantito.
Ma allora sarebbe possibile far lavorare in Italia un lavoratore alle stesse condizioni applicabili a un lavoratore che lavori in Polonia, Romania o in Cina?
Non esageriamo. È possibile negli scantinati di un laboratorio che lavora in nero. Ma è possibile ridurre in modo considerevole le tutele, azienda per azienda. O area per area. Dal 2011 esiste infatti il famoso, o famigerato, art. 8! Quello dei “contratti di prossimità” (aziendali o territoriali) che, con efficacia nei confronti di tutti i dipendenti dell’impresa (anche se non aderenti ai sindacati), purché sottoscritti sulla base di un non meglio precisato “criterio maggioritario”, sono legittimati a derogare non soltanto al contratto nazionale, ma anche alla norme inderogabili di legge, in caso, ad esempio, di gestione delle crisi aziendali e occupazionali, “fermo restando il rispetto della Costituzione, nonché i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro”.
E viene utilizzato l’art. 8?
In incognito. Sottovoce. Si fa ma non si dice. L’art. 8 è ritenuto norma eversiva rispetto ai principi fondamentali del Diritto del lavoro e, dunque, meno lo si nomina e meglio è. La prolusione dei professori di Diritto del lavoro è stata stravolta a partire dai corsi successivi al 2011: prima spiegavamo che il Diritto del lavoro è un sistema di norme inderogabili a tutela dei lavoratori. Ora dobbiamo correggerci e aggiungere: “Anzi, derogabili dai contratti di prossimità”. E già il corso inizia male.
Ma fino a che punto può arrivare l’art. 8?
L’art. 8 può molto ma non può tutto, anche se per qualcuno (la maggioranza politica che lo ha varato) rappresenta il futuro di un diritto del lavoro ritagliato come un vestito sartoriale sulle esigenze delle singole imprese. Una camicia di Nesso che si vorrebbe far indossare ai lavoratori, secondo gli altri.
Cosa non si può fare con l’art. 8?
Ad esempio, pattuire a livello aziendale, quale alternativa alla delocalizzazione, una retribuzione inferiore ai minimi retributivi previsti dal Contratto collettivo nazionale, che i giudici del lavoro potrebbero ritenere non conforme al principio costituzionale della retribuzione proporzionata e sufficiente. O privare i lavoratori di tutele che siano espressione di principi di civiltà giuridica (consentire il licenziamento ingiustificato o escludere l’obbligo del preavviso e via dicendo, o legittimare il moderno caporalato, che sovente si annida in “sofisticate” esternalizzazioni).
Allora la concorrenza tra lavoratori sul mercato globale sta trasformando il Diritto del lavoro.
Sì. La combinazione di ineluttabile globalizzazione, crisi economica, crisi della giustizia del lavoro (che si affronta anche con quell’efficace strumento deflativo del contenzioso che è il rigetto dei ricorsi) ha reso aleatoria, se non illusoria, la tutela che qualcuno ancora si aspetta da un Diritto del lavoro pur in fase di caotico ripiegamento. Ma la globalizzazione può anche essere un’opportunità, se, da una parte, non è l’occasione per una resa dei conti e, dall’altra, stimola una sana concorrenza al rialzo, e premia disponibilità, dinamismo, impegno, merito, “capacità di agire in un contesto imprevedibile”, inducendo un cambio della diffusa “cultura del lavoro” che si basa sullo “spartire ciò che c’è”.