Il 19 marzo del 2002 sono stato privato all’improvviso di un amico. Una persona della mia età ha preso necessariamente confidenza con la morte, perché lungo il suo “migrare dei giorni” (quanto è bella questa similitudine del Salmo!) tante persone care gli sono venute a mancare. Negli ultimi anni ho persino ritrovato la fede e con essa ho maturato la convinzione che la morte non è la fine di tutto, ma solo un episodio dell’esistenza. Quella stessa fede illuminò l’intero percorso di Marco e lo vide – nelle ultime settimane – particolarmente attivo nei sacramenti, in ossequio al precetto dell’estote parati. Non so neanche perché ho voluto consegnare il ricordo di questa amicizia a un libro. Forse perché nel rapporto con Marco c’erano dei rimpianti per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato.



L’amicizia è un sentimento che appartiene pianamente solo ai giovani: gli unici che possono liberamente usufruirne perché hanno il tempo e la forza per dedicarsi agli altri, per vivere del piacere di stare insieme. Chiunque di noi, interrogato sui migliori amici della vita, ricorderebbe sicuramente il compagno di scuola, vicino di banco. O comunque qualcuno che al pari di noi aveva in mente e ci confidava “quel vago avvenir” che immaginano i giovani, prima che la vita reale prenda il sopravvento e li distragga con gli impegni, il lavoro, la famiglia, le preoccupazioni e quant’altro allontana da “quell’esile sostanza di cui sono intessuti i sogni”.



Di questa amicizia parlo con pudore, perché ho troppo rispetto del dolore della famiglia (nel suo insieme e di ognuno dei componenti per la particolare relazione che aveva con Marco), nonché della dignitosa compostezza con cui viene gestito un dolore insanabile. Chiedo scusa alla moglie, ai figli, alla sorella e al padre (sono le persone alle quali questo libro è dedicato) se mi permetto di affermare che la morte di Marco ha cambiato anche la mia vita. Quella notte, in via Valdonica, a due passi dalle Due Torri, sotto quei portici bui, in quell’intreccio di viuzze con l’acciottolato, tra Piazza S. Martino e l’antico Ghetto, ho certamente perduto un amico. Ma ho trovato un Maestro, una Guida. Non solo perché – da allora – ho iniziato a occuparmi dei problemi del mercato del lavoro proprio per meglio difendere la memoria e la causa di Marco. Ma per aver riscoperto – quando ormai non lo ritenevo più possibile dopo l’eclissi di tutti i miei ideali – una missione nella vita.



In quella notte ho ricevuto una consegna: non mollare mai, servire la verità, ascoltare la coscienza. Che altro dire? Non è difficile morire bene. Lo è vivere bene. Spero che sia vicino il giorno quando, anche per me, verrà il tempo di chiedere licenza, come il vecchio Simeone. Allora, Marco ed io ci incontreremo di nuovo – questa volta per sempre – su quei verdissimi pascoli e nei pressi di quelle acque fresche dove il Buon Pastore conduce a riposare i giusti. Mi piace pensare che faremo delle lunghe passeggiate in bicicletta. E che Marco vorrà aspettarmi, perché ho molto meno fiato di lui, lungo un viale, all’ombra dei frassini. Per raggiungerlo, basterà chiedere al primo arcangelo che si incontra. Certamente avrà trovato anche nei Campi Elisi qualcosa da organizzare. E si sarà cimentato in quel nuovo compito con serietà e impegno più grandi, perché i morti sono migliori dei vivi.

Quando mi afferra la malinconia – e invecchiando capita di sovente – mi consola pensare che tutta quell’assurda tragedia di una notte di incipiente primavera un “perché” in fondo l’avesse. Sicuramente il Signore (Colui che è la Via, la Verità e la Vita; Colui che atterra e suscita, che affanna e che consola) aveva bisogno di Marco e della sua opera per riordinare il mercato del lavoro della Santa Gerusalemme celeste. Ora, tutto fila liscio lassù.

 

(da “Il riformista tradito. Storia e idee di Marco Biagi” di G. Cazzola, Boroli Milano)