I dati sui ragazzi che non studiano e non lavorano (Neet) in Italia sono ormai tristemente noti, così come quelli sulla disoccupazione tra i 15 e i 29 anni o sulle difficoltà ad avere un’occupazione continuativa per i nostri giovani. Il programma europeo Youth Guarantee e il Jobs Act allo studio del Governo dovranno cercare di risolvere questa difficile situazione e un contributo alle risorse necessarie potrebbe arrivare tramite un’imposta di solidarietà generazionale. Essa dovrebbe applicarsi ai contribuenti di una certa età, a prescindere che si tratti di pensionati, lavoratori dipendenti o autonomi.
Per capire e prima di liquidare a priori l’imposta di solidarietà generazionale è necessario sfatare alcuni luoghi comuni. Il primo è quello che l’equità intergenerazionale sia solo un modo elegante di attentare ai redditi e alle ricchezze di coloro che se le sono guadagnate dopo una vita di lavoro. Invece in forza di tale principio, qualsiasi politica economica dovrebbe assicurare alle generazioni future almeno la stessa qualità della vita e le stesse opportunità di cui godono le attuali generazioni mature.
Potremmo definire questo approccio “di sostenibilità integrata”, perché si propone di ridurre non solo il debito nei confronti del Pianeta (la tradizionale sostenibilità ambientale), ma anche quello contratto con le nuove e future generazioni (la sostenibilità per l’equità intergenerazionale). Dunque l’equità intergenerazionale è una componente imprescindibile della più nota sostenibilità.
Il secondo luogo comune è che l’imposta di solidarietà generazionale porterebbe soltanto a una mera ridistribuzione di ricchezza. Non è così, l’intervento mira, ancora una volta, a sostenere coloro che – solo ora e solo loro – si trovano a dover affrontare l’intera vita lavorativa (e oltre) fronteggiando gli emergenti costi dell’adattamento ai mutamenti climatici e la mitigazione delle emissioni nocive. Costi nuovi ed emergenti impongono una riflessione sul chi e come vadano sostenuti.
Infine, il terzo luogo comune, secondo il quale l’imposta di solidarietà generazionale andrebbe a incrementare l’imposizione media dei cittadini e quindi a sostenere l’ennesima spesa pubblica dagli esiti incerti rinunciando così alla doverosa spending review o alla lotta all’evasione fiscale. La nuova imposta si limita a perequare, aumentando (di poco) l’imposizione di taluni soggetti e riducendo (di molto) il cuneo fiscale gravante su molti, oltre che sostenendo anche ammortizzatori riservati ai giovani. Nessuna entrata nuova per lo Stato.
Non si tratta però di un prelievo solidaristico (aiutiamo i più bisognosi), ma un prelievo a natura perequativa, volto a sgravare coloro che ingiustamente si trovano nella posizione di sopportare oneri eccessivi. La sostenibilità etica ed economica di questi prelievi va ricondotta all’obiettivo più generale (evocato all’inizio di questo articolo) di assicurare la sostenibilità integrata.
Naturalmente, non è possibile immaginare un prelievo che vada a colpire indiscriminatamente tutta la popolazione oltre una certa fascia di età, dovendo fare salva, anche in questo caso, la tutela della fascia più debole (i superanziani, che tra l’altro, sono anche loro i fautori del successo economico dei baby boomer), anch’essa, come i giovani ai margini della vita lavorativa. Un intervento generalizzato inoltre provocherebbe una nuova contrazione dei consumi e quindi andrebbe a ridurre il beneficio che la stessa politica fiscale vuole assicurare. Ecco perché si prevede un impatto a “campana” del contributo; maggiore nella maturità fiscale e minore all’ingresso e in uscita da tale maturità. Il prelievo deve inoltre essere progressivo e proporzionale al grado di superamento della soglia minima da predeterminare.
Ora si può discutere sulla progressività di tale imposta, sui contribuenti da esonerare e sul target dei beneficiari della perequazione, ma certo non sulla sua necessità e urgenza, sotto il profilo etico, giuridico ed economico.