Fino al 20 marzo 2014 per assumere a termine era richiesta una motivazione, a eccezione del caso di primo rapporto di lavoro di durata fino a 12 mesi comprensivi di una (e solo una) eventuale proroga. La possibilità di assumere per 12 mesi senza causale, “strausata” dalle imprese in questi due anni, è stata una di quelle novità (vere) della Legge Fornero del 2012 che le può far valere il nome di Riforma. Dal 21 marzo 2014, con l’entrata in vigore del primo atto del Jobs Act (D.L. n. 34 del 20/03/2014) non esiste più il contratto a tempo determinato per motivi tecnici, produttivi, organizzativi, sostitutivi, mentre diventa regola generale, per qualsiasi mansione, il contratto a termine senza causale fino a un massimo di 36 mesi, comprese eventuali proroghe. Viene anche superata la precedente disciplina che limitava tale possibilità solo al primo rapporto di lavoro a tempo determinato. È sulle proroghe la seconda, sostanziale novità, perché nell’ambito dei 36 mesi lo stesso contratto a termine può essere prorogato sino a 8 volte (non più una sola), purché il lavoratore svolga la medesima attività lavorativa per la quale è stato stipulato il contratto.



Anche per i contratti di somministrazione a termine non è più necessaria l’indicazione di una motivazione, è sufficiente rispettare il medesimo limite di durata dei 36 mesi (proroghe comprese). Quante proroghe sono però ammesse nel contratto di somministrazione a termine? Verosimilmente non dovrebbe farsi riferimento alle “8 proroghe” previste nel decreto che disciplina il contratto a termine, perché le proroghe nella somministrazione sono di esclusiva competenza del contratto collettivo di settore. Quindi la somministrazione dovrebbe scontare una regola di peggior favore: massimo 6 proroghe nell’arco dei 36 mesi (ex art. 22 c. 2 Riforma Biagi e art. 47 del recente accordo di rinnovo del 27/02/2014 del Ccnl dei somministrati).



Gli interventi descritti sono sicuramente opportuni e positivi, perché estendono a tutte le imprese misure di liberalizzazione sulla durata del contratto a termine già presenti, ad esempio, in recenti accordi di rinnovo dei Ccnl (ad esempio, Ccnl Pelli e Cuoio, Ccnl Tessile, Ccnl Turismo-Confcommercio) e nell’“accordo Expo” stipulato a Milano da sindacati e imprenditori. Si tratta quindi di una modifica legislativa che si inserisce in una direzione a cui già guardavano, seppur timidamente (soprattutto a livello nazionale della contrattazione), e non all’unanimità, parti sociali e imprese. Inoltre, la previsione di una regola generale di a-causalità nei contratti a termine e nelle somministrazioni a termine avrà certamente il pregio di eliminare i lunghi e incerti contenziosi circa la fondatezza delle causali, sempre più frequenti anche nel campo delle somministrazioni, dove si dibatteva soprattutto sulla questione se le motivazioni dovessero o meno essere circostanziate come quelle richieste nel contratto a termine.



Resta poi il fatto che l’espansione della regola della a-causalità è probabilmente destinata a produrre un’ulteriore contrazione della quota, già molto ridotta, dei contratti a tempo indeterminato nel flusso generale delle assunzioni, anche considerando il trend negativo dell’ultimo anno delle trasformazioni a tempo indeterminato dei contratti a termine. Solo qualche dato in proposito: dal monitoraggio a un anno dalla Legge Fornero risulta che la quota più consistente delle assunzioni è rappresentata dai contratti a termine (il 69,3% del totale dei contratti), seguita dai contratti a tempo indeterminato (15,4%), le collaborazioni a progetto (5,9%) e i contratti di apprendistato (2,7%). Esaminando poi il fenomeno delle trasformazioni dei contratti da tempo determinato a indeterminato si osserva una dinamica negativa (ad esempio, il secondo trimestre del 2013 segnala un vero e proprio crollo delle trasformazioni, con un calo del 22% rispetto alle trasformazioni effettuate nello stesso periodo del 2012).

La contrazione delle assunzioni a tempo indeterminato può essere anche spiegata da un altro interessante punto di vista (dati del secondo trimestre 2013), visto che le attivazioni di contratti a tempo indeterminato diminuiscono in termini tendenziali, ma non per tutti: calano del 15,8% per gli stranieri comunitari, del 12,7% per gli italiani e solo del 2,3% per i cittadini extracomunitari, impegnati in larga misura da parte delle famiglie per il lavoro domestico (non a caso, però, nella forma contrattuale del lavoro domestico esiste il recesso libero).

La terza e ultima novità di rilievo introdotta dal Jobs Act nei rapporti a termine è la previsione di un limite numerico, derogabile da parte della contrattazione collettiva, pari al 20% dell’organico per “i rapporti di lavoro costituiti da ciascun datore di lavoro (ai sensi del presente articolo)”, quindi il riferimento dovrebbe essere sia ai contratti a termine, sia alle somministrazioni a termine senza causale fino a 36 mesi. Per le imprese fino a 5 dipendenti è sempre possibile assumere un lavoratore a tempo determinato.

Sono comunque esenti da limitazioni quantitative (eccezioni già presente nel nostro ordinamento) i contratti a termine conclusi in fase di start-up per i periodi definiti dai Ccnl, per ragioni di carattere sostitutivo o di stagionalità, per specifici spettacoli ovvero programmi radiofonici o televisivi e con lavoratori con più di 55 anni. Questa misura vuole porre evidentemente un freno “legale” alla sottoscrizione di un numero illimitato di assunzioni a termine, dirette o indirette tramite somministrazione.

La norma, mi pare, non introduca nulla di nuovo, considerato che esistono già nella maggioranza dei Ccnl limiti quantitativi alla stipula di assunzioni a termine anche per il tramite delle agenzie interinali. Si deve pertanto ritenere che la previsione di legge operi solo in assenza di una disposizione del Ccnl di riferimento. Rimangono invariate le altre regole dei contratti a termine, quali ad esempio gli intervalli temporali tra contratti, la prosecuzione di fatto dei contratti a termine e il diritto di precedenza.

Qualche dubbio rimane nel combinato disposto di alcune norme con quelle oggi modificate (auspicando qualche chiarimento magari in sede di conversione in legge): ad esempio, nel computo dei 36 mesi di durata massima dei contratti a termine ormai solo a-causali continuano a computarsi anche i periodi di somministrazione?

In materia di apprendistato le modifiche tendono a una semplificazione dell’istituto al fine di incentivarne l’utilizzo. In particolare nell’apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale (per soggetti tra i 15 e i 25 anni, finalizzato al completamento del percorso scolastico obbligatorio) è previsto che la retribuzione del lavoratore sia intera per le ore di lavoro effettivamente prestate e pari al 35% del monte ore complessivo destinato alla formazione. È stato anche eliminato l’obbligo per il datore di lavoro di integrare la formazione di tipo professionalizzante e di mestiere con l’offerta formativa pubblica per la cosiddetta formazione di base/trasversale (per i laureati pari a 40 ore nel triennio). Sul punto non è peraltro chiaro se tale formazione debba essere comunque impartita dal datore di lavoro o possa essere del tutto omessa. Scompare l’obbligo della forma scritta per il piano formativo individuale, anche se ci si chiede: non è utile nei confronti dell’apprendista (nonché di eventuali organi di vigilanza) avere un documento sottoscritto che attesti il percorso formativo che si intende effettuare?

Di poco peso, anche se condivisibile, la previsione che elimina l’obbligo, introdotto dalla Legge Fornero, di condizionare l’assunzione di nuovi apprendisti alla conferma in servizio di una percentuale di quelli assunti in precedenza. Peraltro l’eliminazione della “clausola di stabilizzazione legale” non fa venir meno le clausole contrattuali, considerato che l’obbligo di conferma degli apprendisti per procedere a nuove assunzioni rimane pur sempre presente in quasi tutti i contratti collettivi nazionali.

Queste modifiche saranno in grado di invertire il trend decrescente delle assunzioni mediante apprendistato? (N.B.: al contrario, cresce del 3% circa il numero medio di contratti di apprendistato per la componente più adulta, tra i 30 ed i 34 anni). È arduo valutare oggi se le modifiche introdotte siano fattore di propensione all’utilizzo dell’apprendistato, ma appare utile sottolineare che se gli apprendistati diminuiscono in tutte le Regioni, la Provincia Autonoma di Bolzano, nota per lo sviluppo di un modello cosiddetto duale, attraverso il quale alla preparazione tecnica impartita in azienda viene associato l’insegnamento nelle scuole professionali, registra una crescita del 6% degli apprendistati.

Per concludere: lo scopo che si pone idealmente il decreto è “generare nuova occupazione, in particolare giovanile”. Considerato il trend negativo che si continua a registrare tra gli occupati (-2,2% nel secondo trimestre 2013 rispetto ai livelli del 2012), in periodi in cui erano già presenti gli strumenti modificati dal Jobs Act (contratto a termine a-causale, anche se più breve, somministrazione e apprendistato) ci si chiede se le misure di liberalizzazione e semplificazione introdotte siano veramente in grado di far ripartire il mercato del lavoro. O forse occorre attendere le altre misure del lavoro annunciate dal Governo? C’è consapevolezza su cosa veramente serve per far ripartire imprese e investimenti?