In questo articolo vediamo in dettaglio il modello alla base del Jobs Act, le possibili conseguenze sul mercato del lavoro e i problemi strutturali da affrontare. In generale, l’obiettivo che intende conseguire Matteo Renzi non è così distante dai principi dei precedenti governi, ovvero la realizzazione dell’ormai inflazionato modello di “flexicurity” (assistenza universale, una flessibile regolamentazione del mercato del lavoro ed efficienti servizi pubblici per l’impiego). Nessuno può dire se questi principi, o presunti tali, funzioneranno anche in Italia, supponendo che saranno trovate le coperture economiche necessarie a finanziarlo.



La modifica del contratto a termine (legato soprattutto all’eliminazione della causale) probabilmente produrrà un marginale aumento di questi contratti (dato che comunque va rispettato il limite del 20%). Influirà sicuramente sulla propensione da parte del datore di lavoro ad assumere una persona con un contratto a tempo indeterminato, che verrà marginalizzato a figure “strategiche” per il core business dell’azienda oppure verrà utilizzato solo per le persone portatrici di vantaggi fiscali (rischia di diventare il contratto delle categorie protette o svantaggiate).



Non avrà nessun impatto nei confronti degli altri contratti atipici, dato che comunque costa di più, ma paradossalmente potrebbe ridurre in parte il fenomeno del precariato di breve durata, ampliando però quello di medio e lungo periodo. È probabile che i dipendenti dopo tre anni di contratto verranno sostituiti da altri lavoratori (oggi questo avviene molto prima dei tre anni).

Ancora più assurdo, dopo questa modifica, risulta l’ostruzionismo dei sindacati a una seria riforma del contratto a tempo indeterminato. In altri termini, si preferisce questo a un eventuale “contratto unico a garanzia graduale”, che nella relazione del governo viene anche accennato, ma risulta palese che nessun datore di lavoro deciderà di utilizzarlo data la presenza di un contratto a termine così vantaggioso.



Comunque, come per gli altri provvedimenti non mi aspetto impatti significativi sul mercato del lavoro, allo stesso modo mi tocca evidenziare l’inutile modifica al contratto di apprendistato, addirittura a rischio di sanzioni comunitarie, che in buona parte ricorda il contratto di formazione-lavoro (va detto uno dei pochi contratti che in Italia ha effettivamente funzionato). Ricordo che dai dati sulle comunicazioni obbligatorie, il contratto di apprendistato per i giovani è sempre stato uno strumento marginale; utilizzato pochissimo dalle imprese che richiedono sempre più personale competente e visto l’elevato squilibrio della Curva di Beveridge non fanno certamente fatica a trovarlo. Eppure la logica alla base del contratto non è errata, ma realizzare in quattro anni quasi dieci modifiche sullo stesso contratto allontana definitivamente dallo strumento quelle poche aziende straniere presenti in Italia. L’importante è evitare di utilizzare l’apprendistato per il cassiere del supermercato, che negli anni passati rappresentava l’idealtipo del contratto, piuttosto che per il giovane che lavora nella piccola boutique artigianale.

Nel Jobs Act è presente anche l’intento di riformare i servizi pubblici per l’impiego (tramite una nuova Agenzia federale) e gli ammortizzatori sociali. Tuttavia, questi passaggi fondamentali per la realizzazione del modello di flexicurity rischiano di realizzarsi nel momento sbagliato. In particolar modo, l’assenza di domanda di lavoro rischia di vanificare le eventuali buone pratiche nei servizi al lavoro e così anche l’eccesso di destinatari di ammortizzatori sociali può portare al collasso del sistema di protezione sociale.

La questione è di fondamentale importanza, gli esiti del “triangolo d’oro” (ovvero flessibilità, welfare e servizi efficienti) sono strettamente connessi allo stato di salute del modello economico-produttivo di riferimento. Il grande malato in Italia è la domanda di lavoro. Sull’argomento ritengo fondamentale evidenziare che la nostra nano-impresa è sempre più difficoltà, così come le nostre Pmi. Le quali soffrono di un pessimo stato di salute, un modello di gestione familiare poco aperto al mercato internazionale e troppo dipendente dal proprio tessuto territoriale.

A ciò si aggiunge una pessima situazione di liquidità del sistema in generale e una profonda difficoltà di credito da parte del sistema bancario. Sull’argomento ricordo il fallimentare tentativo del programma mini-bond (finanziare le Pmi tramite il mercato e non le banche, vera ancora di salvezza nel mercato americano), fallito prevalentemente per la scarsa attrazione delle nostre imprese da parte del mercato finanziario (gli investitori finanziano i business plan convincenti e non programmi per sanare debiti considerevoli).

Infine, per il rilancio dell’economia è necessario valutare bene che cosa si deciderà di fare delle risorse provenienti dalla revisione della spesa pubblica: tagliare le tasse o finanziare programmi di sviluppo economico per micro-imprese? È mia opinione che la seconda possibilità sia certamente preferibile alla prima, soprattutto per il precedente storico che riguarda il caso Minnesota. Risulta interessante notare come questa parte d’America sia stata governata per 20 anni dai “Repubblicani”. Le politiche da loro messe in campo, fatte di tagli alle imposte per le classi più agiate e tagli al welfare, sono risultate eccessivamente dispendiose, gravando oltremodo sulla finanza pubblica.

Tutte le attività dello Stato sono state bloccate, 24 mila dipendenti pubblici a casa, parchi e musei chiusi, impossibile sostenere esami nelle scuole e a causa del mancato rinnovo della licenza molti bar hanno dovuto interrompere forzatamente gli acquisti di birra, vino e liquori per i loro clienti. Solo l’intervento del Governo federale ha evitato che i problemi si allargassero ai pronto soccorso (colpiti marginalmente visto il modello di assistenza sanitario assicurativa), all’assistenza sociale e alla pubblica sicurezza, cosa che in parte non si è riusciti a evitare per la città di Detroit.

Accanto a eventuali e importanti investimenti in settori strategici, ben vengano programmi che sostengano contratti di solidarietà espansivi, staffette generazionali, voucher per la mobilità occupazionale, Job-rotation e programmi di inserimento in lavori socialmente utili, ma attenzione: seppur rilevanti affrontano la crisi in modo marginale e non sono esenti da conseguenze sociali seppur meno rilevanti della disoccupazione.

Leggi anche

LICENZIAMENTI/ Il nuovo colpo al Jobs Act passa dall'indennità per vizi formaliJOBS ACT/ Il problema irrisolto dopo la "vittoria" della Cgil a StrasburgoJOBS ACT/ Il rischio di un'altra bocciatura della Corte Costituzionale