Nella prospettiva della Strategia di Lisbona nel nostro continente si aprì una riflessione tesa alla definizione di un nuovo modello sociale “europeo”. Al centro di questo modello si poneva il concetto di flexicurity che cercava di coniugare, in particolare sulla base dell’esperienza danese, due dimensioni antitetiche: flexibility and security. Un’ipotesi, insomma, di un nuovo sistema che sapesse tenere in equilibrio efficienza ed equità, basandosi su un “triangolo d’oro”: un welfare generoso, flessibilità del mercato del lavoro e, ovviamente, efficaci politiche attive. La flexicurity diventò, quindi, il cuore di questo modello sociale e la base su cui costruire le misure per raggiungere gli obiettivi, perlomeno ambiziosi, delineati dalla Strategia di Lisbona.



Nello stesso periodo di tempo si sviluppò, anche nel nostro Paese, un percorso simile a quello delineato nella dimensione comunitaria che trova le sue radici nei lavori della Commissione Onofri, le cui conclusioni riecheggiano ancora nelle attuali proposte al vaglio di Governo e Parlamento. In quella sede non si proponevano, infatti, tagli, ma un complessivo ripensamento della spesa sociale: meno pensioni e più sostegno alla disoccupazione e lotta alla povertà. Un sistema, quindi, che presupponeva l’abbandono della tradizione logica lavoristico categoriale per abbracciare un approccio universalistico sebbene “selettivo”.



Sostanzialmente le medesime linee guida animarono il progetto riformista di Marco Biagi. Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, alle proposte che tendevano a ridisegnare le misure di tutela e sostegno al reddito rispetto ai nuovi strumenti di flessibilità “marginali” che andavano ad affacciarsi nel nostro mercato del lavoro.

Su questa delicata materia la “Riforma Fornero” è intervenuta introducendo l’Aspi (Assicurazione sociale per l’impiego), una misura di sostegno al reddito che protegge i lavoratori dal rischio di perdita dell’occupazione e che è andata a sostituire e inglobare le precedenti indennità di disoccupazione (ordinaria, speciale edile) e di mobilità. L’ambito di applicazione della nuova forma di sostegno viene esteso, quindi, agli apprendisti e ai soci lavoratori di cooperativa in precedenza privi di tali tutela. La stessa legge enfatizza, allo stesso tempo, la necessità di un ulteriore sforzo per rendere effettivo quel principio di condizionalità che lega indissolubilmente la partecipazione a percorsi di politica attiva e il godimento delle misure di integrazione/sostegno al reddito.



In questo quadro si trova a operare, quindi, il Governo di Matteo Renzi e la sua proposta di “Jobs Act”. La soluzione che sembra farsi avanti si chiamerà, probabilmente, Naspi: un sussidio di disoccupazione universale (pensato dal Prof. Sacchi), destinato a tutti coloro che perdono il posto di lavoro, compresi anche i lavoratori titolari di un contratto di collaborazione a progetto, oggi sostanzialmente esclusi da quasi tutte le tutele esistenti. Un beneficio che, tuttavia, dovrà essere collegato all’obbligo, per il lavoratore, di seguire un corso di formazione e di non rifiutare più di una proposta d’impiego.

Sta, probabilmente, nell’effettiva realizzazione di questo principio, di cui si parla da almeno un paio di decenni, la più significativa sfida culturale che il Governo Renzi con l’approvazione del Jobs Acts è chiamata a vincere. Una scommessa che presuppone, tuttavia, una reale apertura di credito, in un’ottica di sussidiarietà che superi i vecchi pregiudizi, a tutti quei soggetti privati e/o espressione delle Parti Sociali e del Terzo Settore (ma anche istituzioni formative) che tutti i giorni operano con estrema professionalità nel mercato del lavoro.

 

In collaborazione con www.amicimarcobiagi.com

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